martedì 1 dicembre 2015

La Federazione Italiana dello Scautismo si presenterà al Mondo con il progetto Educare: Energia per la Vita.

ExpoFIS_Logo_01 <p data-wpview-marker=La Federazione Italiana dello Scautismo si presenterà al Mondo con il progetto Educare: Energia per la Vita.
Sarà il nostro modo di portare a Expo Milano 2015 i temi fondamentali della fiducia nei bambini e nei ragazzi, la promozione di uno stile alimentare sano, la ricerca di comportamenti sempre attenti ad una produzione e distribuzione del cibo più giusta ed equa.
Insomma, per noi, al centro di ogni attività c’è l’uomo e la sua capacità di relazione con gli altri e con la Natura.
Perché gli scout vogliono esprimere il loro parere sul Tema “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita”? 

la possibilità che Famiglie accolgano fratelli scout
banner_diffuso
una serie di eventi che si potranno giocare sui territori. Iniziative aperte anche a NON ASSOCIATI,
non legate necessariamente ai temi della nutrizione, del cibo,
della sana alimentazione e della sostenibilità ambientale
.
banner_stand
In Cascina Triulza, padiglione della società Civile, nelle settimane 15-28 giugno 2015 e 5-11 ottobre 2015 animeremo uno stand, con l’obiettivo di raccontare e raccontarci, di diventare portatori di sguardi e punti di vista che ci appartengono.
Sarà l’occasione per parlare dello Scautismo, delle sue proposte, della vita dei nostri Gruppi, Compagnie, Clan, Reparti, Branchi, Cerchi, Settori, ecc.
È una grande occasione per tutti. Un’opportunità per rimettere al centro dei propri percorsi temi valoriali, per aprire riflessioni e per comunicarle.

lunedì 23 novembre 2015

La comunità capi triste

La comunità capi triste

Come sorride e canta, anche nelle difficoltà, un gruppo di adulti.
di Francesco Santini, da Scout – Proposta educativa, 2012 (Anno XXXVIII, n°1 pag. 17-18)
La comunità capi triste è un agglomerato di capi informi, divisi, ognuno che forma un pianeta a sé.
Si arriva a riunione di comunità capi portando lo stress della giornata, di un esame andato male, di una giornata di lavoro pessima, di problemi in famiglia o la fatica del servizio. A seconda dell’argomento all’ordine del giorno i capi riversano nella riunione i propri: “io penso che”, “ai miei tempi si faceva così”, “io ho la soluzione”, “no, ma tu non sei esperto”, “no, ma tu non capisci, non sai, non puoi”. La comunità capi è uno dei primi motori motivazionali al servizio dei capi e forse uno dei fattori che contribuisce a far abbandonare il servizio è proprio quella vena di tristezza, fatta di litigi e sfiducia reciproca, che rende triste una comunità capi.
Mai come in questo momento, nel nostro Paese e nella nostra Associazione, vi è la necessità di percorrere il sentiero del dialogo, fatto di dibattito, di scontri e incontri, di scelte decise, non tanto all’unanimità, quanto seguendo le vie di un sano e maturo confronto tra adulti. Questo sentiero deve essere percorso da tante sentinelle, persone, scout che sappiano esprimere le proprie opinioni senza voler prevaricare quelle degli altri. Iniziamo insieme a percorrere la via del dialogo e per farlo, impariamo a costruire in comunità capi un forte antidoto alla tristezza: la forza del saper sostenere una propria posizione, trovare un accordo, venire incontro all’altro.
Scindere le persone dal problema
Spesso in comunità capi ci troviamo ad affrontare argomenti che scaldano le serate e gli animi. In questi momenti, oltre alla necessaria presenza di capigruppo preparati al ruolo di registi delle discussioni, è fondamentale che ci ascoltiamo. Quando ognuno di noi esprime una opinione su un argomento all’ordine del giorno si corre il rischio di non ascoltare l’altro in quanto l’altro è, per noi, una persona che ha espresso una opinione differente o contrastante dalla nostra. Da qui nascono le litigate, i tiramolla, le opposte fazioni, le riunioni fino a tarda notte che non portano a nulla. Per evitare tali situazioni è necessario concentrarsi non su chi esprime un’opinione (che può avere il pregio/difetto di essere un nostro amico/ non amico nella comunità capi), ma sul contenuto dell’opinione stessa. Sembra una banalità ma vengono realmente perse delle ore nelle nostre comunità capi solamente a controbattersi sulle rispettive posizioni, rimanendo arroccati sui tanti “io la penso così”, “io sono più esperto di te di questa branca” o “ai miei tempi si faceva così”.
Concentrarsi sul ragazzo non sulle posizioni
Una comunità capi che funzioni è una comunità capi dove il capo, giovane e meno giovane, trova un luogo dove condividere il percorso educativo di tutto il gruppo, dal lupetto al rover, dalla coccinella alla scolta: questo perché siamo capi per ogni ragazzo/a del gruppo, non solo per quelli della Branca in cui prestiamo servizio. Per portare avanti una discussione che sia incentrata su un argomento del tipo “Mario è un ragazzo con problemi di socializzazione, come possiamo fare a coinvolgerlo?”, ogni capo che partecipa dovrebbe fare un esercizio mentale: immaginare al centro del cerchio la figura stessa del ragazzo/a di cui si sta parlando, in questo modo evitiamo di avere nella mente solo il viso di chi sta esponendo una sua opinione differente dalla nostra a cui vogliamo, spesso, controbattere. È bello condividere inoltre, da parte di ogni branca, anche i traguardi e le cose belle fatte con i ragazzi.
Non attaccare l’altra persona o l’idea altrui
Baden-Powell diceva che “colui che è capace di mantenere l’attenzione del ragazzo medio [e io direi anche del capo] per più di sette minuti su un argomento è un genio” (Taccuino, Edizioni Fiordaliso, pag. 166). Quando esponi la tua opinione fallo nel modo più chiaro, semplice e conciso ed evita di perdere tempo nel sottolineare perché o come sei contrario al parere altrui. Sempre Baden-Powell diceva “Non dire mai qualcosa che non metteresti per iscritto” (Giocare il Gioco, Edizioni Fiordaliso, pag. 84) e che: “L’educazione dev’esser positiva, non negativa[…] la legge scout in ognuno dei suoi articoli dice: “lo scout è” oppure “fa” qualcosa (e non) lo scout “non è” oppure “non fa” (Taccuino, Edizioni Fiordaliso, pag. 110). Queste sono o non sono due regole base per una buona comunicazione in comunità capi che ci ha dato B.-P. quasi un secolo fa? E noi sappiamo metterle in pratica?
Basarsi su criteri oggettivi
Nelle comunità capi ci si confronta su tanti argomenti, anche molto difficili o delicati come quelli dei capi scout in situazioni eticamente problematiche oppure si affrontano casi di ragazzi/e dalla difficile integrazione o anche le difficoltà che possono avere staff o singoli capi nel loro servizio. Un suggerimento per non impiegare male il poco tempo di una riunione di comunità capi è quello di arrivare preparati e di non vivere la riunione come una gara di opinioni e pareri: in comunità capi non si compete, si condivide. Un capogruppo che definisce l’ordine del giorno e sa che in quella riunione si affronteranno argomenti delicati, potrà preparare e consegnare a tutti i capi una serie di estratti dai documenti ufficiali dell’associazione o dagli scritti di Baden-Powell. Personalmente quando ero capogruppo ho usato così il documento “Capi in situazioni eticamente problematiche” reperibile sul sito dell’Agesci. Esso ha aiutato la comunità capi in una riflessione non facile riguardante un capo del gruppo. Sapere che l’Associazione si è già espressa su argomenti che oggetto di discussione in comunità capi può aiutare se: i documenti vengono presi come indicazioni (e non dogmi) sulla cui base partire insieme per prendere delle decisioni e se chi ha il ruolo di fare da regista (capogruppo) è preparato ad affrontare tali discussioni e argomenti: in pratica se prima almeno lui certi documenti se li è letti. Centrale è il ruolo del capogruppo: regista, animatore, motivatore, persuasore, ma non impositore. Che ruolo e che delicatezza!
In fin dei conti la comunità capi è un po’ il fulcro dell’Agesci, non lo pensi anche tu?

lunedì 16 novembre 2015

La differenza d'età in Co.Ca. Ricchezza o difficoltà?

Spesso in Comunità Capi le differenze d’età sono consistenti e la convivenza non è sempre facile. Quale cura prestia mo ai legami fra passato e futuro? Quando aveva 20 anni Luisa di una cosa era certa: non sarebbe diventata mai come il suo capo gruppo. Non lo sarebbe diventata perché lui era un uomo e – cosa più importante – perché lei avrebbe capito in tempo quando fosse arrivato il momento di andarsene; avrebbe saputo come comportarsi con il resto del gruppo: non avrebbe preteso di essere onnipresente a tutte le attività commentando, correggendo, sottolineando ogni qualvolta lo spirito della tradizione veniva minacciato. Avrebbe evitato gli immancabili “ai miei tempi!” e avrebbe omesso di precisare sempre quanto fosse notevole l’esperienza posseduta e che, metaforicamente parlando, dopo la sua fuoriuscita dal gruppo il diluvio avrebbe sommerso e distrutto qualsiasi traccia di scautismo. In sintesi lui era vecchio e, si sa, giovani e vecchi non riescono a lavorare insieme! Il povero Luigi, in realtà, non arrivava ai 45 anni e non solo non si sentiva vecchio, ma era convinto che il gruppo andasse bene e funzionasse perché, fortunatamente, lui e altri capi vecchi come lui (che lui amava definire “vecchi capi”) di lunga e sicura esperienza, tradizione, stabilità e affidabilità garantivano il giusto stile scout. Luisa e Luigi, anche se in tempi diversi e con modalità molto differenti, lasciarono la comunità capi. L’una, esigente ed ipercritica prima di tutto verso se stessa, a 35 anni si riteneva troppo vecchia per stare insieme a capi di 20 anni o giù di lì che a volte non capiva, che sembravano poco motivati, poco impegnati, desiderosi di conservare un certo distacco nella scelta di servizio perché “non si può vivere di solo scautismo”, e con molta discrezione, per non imporre la sua presenza e non diventare simile al Luigi di venerata memoria, si defilò. Il buon Luigi se ne andò anche lui: deluso, insoddisfatto, un po’ incattivito (se si potesse dire), sicuramente frustrato perché nessuno lo volle ferire dicendoglielo apertamente, l’aveva capito da solo notando che nessuno lo contraddiceva apertamente, gli lasciavano terminare i suoi interventi… ed era come se se ne fosse già andato... Chissà se esistono altri Luisa e Luigi in Associazione, chissà se dentro ciascuno di noi ci sentiamo un po’ l’una o un po’ l’altro. La ricchezza delle nostre comunità capi e dell’Associazione nel suo complesso, è il vivere esperienze con persone diverse fra loro, dove molteplici sono le variabili che entrano in gioco: la famiglia di origine, il sesso, il tipo di lavoro, il tipo di studi fatti, le scelte vocazionali, l’età, la personalità, le abilità, le disabilità… É una sana costrizione ad uscire da noi stessi, a non dare nulla per scontato, a misurarci con l’altro non teoricamente idealizzato e addomesticato, ma l’altro in carne ed ossa portatore di un’identità certamente simile, ma mai identica alla nostra. Sappiamo effettivamente trarre il massimo vantaggio da questa scelta o, al di là del “dover essere”, soffriamo un po’ questa situazione che oggettivamente è più complessa e più faticosa, e di cui c’è il rischio di cogliere più i limiti che i pregi? Creare una comunità vera è sempre difficile, è un impegno quotidiano e personale che va fortemente voluto, perseguito, tentato e non c’è mai un momento in cui possiamo dirci arrivati, perché la comunità può sempre essere minacciata dalla fretta, dalla superficialità, dalla pigrizia, dall’accidia, dalle omissioni (ben più numerose delle nostre azioni negative) delle nostre relazioni interpersonali. Se questo vale sempre, diventa ancora più difficile quando l’impresa viene vissuta da un gruppo di persone che, pur condividendo una Legge e l’impegno di una Promessa, sono molto diverse fra loro. Quando il gioco funziona, la presenza di tante ricchezze diverse innesca un circolo virtuoso. È straordinario, se si pensa a questo fatto: un gruppo di adulti che insieme fanno un percorso che è di crescita personale e metodologica in un mutuo scambio, dove la reciprocità gioca un ruolo, se non esclusivo, certamente fondamentale tra le persone e nel servizio ai ragazzi. È una comunità dove si vive la fraternità, se ne fa esperienza, dove non c’è qualcuno che dona e qualcun altro che riceve, ma dove si sviluppa una circolarità di dono ricevuto e a sua volta donato. La prima domanda allora potrebbe essere: al di là dei compiti affidati a ciascuno, ai “posti d’azione” ricoperti da ogni persona, usando un termine da Impresa, siamo convinti che all’interno della variabile capi giovani e meno giovani la reciprocità sia il fine ultimo del nostro agire? I capi giovani sono il futuro della nostra possibilità di educazione, quelli meno giovani sono le nostre radici, sono la tradizione della comunità nel senso migliore del termine e cioè quello di trasmissione, di consegna del patrimonio culturale costituito da consuetudini, memorie, notizie attraverso non tanto la documentazione scritta, ma la comunicazione viva e l’esempio di chi nel tempo ha vissuto i valori dello scautismo. I capi meno giovani sono la nostra memoria e chi siamo noi senza memoria? Quale fatica faremmo se dovessimo reimparare di nuovo tutto ogni giorno, che spreco di tempo! Ugualmente vivere negandoci un futuro sarebbe un sopravvivere quanto mai sterile. E allora come seconda domanda potremo chiederci: quale considerazione, quale cura prestiamo, quali necessari legami fra il nostro passato e il nostro futuro? Sbilanciati non si riesce a stare in piedi a lungo e, che si cada all’indietro o in avanti, il risultato non è mai positivo. Fuor di metafora viene in mente san Benedetto che nella sua Regola quando tratta di come l’abate debba decidere su questioni importanti dice esplicitamente ”… abbiamo detto di convocare tutti a consiglio perché spesso il Signore rivela anche a chi è più giovane la soluzione migliore.” (op. cit. cap. 3). In una società che sembra aver annullato i conflitti generazionali verrebbe da pensare che ritrovarsi, giovani e meno giovani insieme, a lavorare, non costituisca un problema. Sarebbe interessante conoscere le opinioni che circolano in Associazione. Opinioni che si fondano non su un teorema assoluto, ma sull’esperienza personale e che quindi possono essere anche molto lontane fra loro e magari contrastanti. Io azzardo la mia, che è altrettanto parziale e relativa e forse anche un po’ confusa e che a ben vedere, più che un’opinione, è un insieme di domande che continuano a riaffacciarsi alla mente. Il problema si presenta quando il gioco non funziona e può non funzionare per tanti motivi, anche per il fatto delle età diverse se, per esempio, la differenza di età è troppa. Capi giovani, ma quanto giovani? Meno giovani, ma di quanto? Domanda che può essere banale o riduttiva tutte e due le cose insieme, ma sulla quale vorrei soffermarmi. Non sono tra coloro che asseriscono che la giovinezza sia solo una questione di “spirito”: la giovinezza è anche una questione anagrafica e lo è tanto più per un’associazione educativa che vede la presenza dell’adulto proposto nella figura del “fratello maggiore”, che sa di una certa qual complicità, pur senza rinunciare alla “adultità” che deriva da una maggior esperienza di vita, ma il fratello per quanto maggiore non è un nonno, né una zia. Questo vale per il rapporto capo-ragazzo e mi interroga che anche qui a volte si sostenga che l’età non conta, ma conta lo “spirito”: quando affermiamo questo, lo facciamo avendo come punto di riferimento noi o i/le ragazzi/e? Sono convinta che anche in comunità capi, se il divario di età è molto ampio, il gioco non funzioni. Se è vero che c’è un limite d’età non sancito statutaria m ente, ma dettato dalla sensibilità pedagogica che porta i meno giova n i a non giocare più il gioco direttamente con i ragazzi, allo stesso modo i meno giovani rivestono sempre un ruolo positivo all’interno della comunità? Qualche anno fa c’era una consuetudine condivisa, almeno a livello teorico, (poi si sa la realtà può portarti a derogare da ciò che è l’ottimo in favore di ciò che è possibile) quella che quando arrivava in comunità capi il/la tuo/a capo squadriglia, era forse venuto il momento di incominciare a pensare seriamente di passare il testimone a qualcun altro. Questo non perché non si sia capaci di farsi da parte, di creare spazi, di stimolare la partecipazione, ma perché la persona che ci si trova di fronte non è più il/la capo squadriglia, è una persona che ha percorso un tratto di strada che ne ha fatto una persona diversa da quella che si conosceva. Ci si deve porre con grande serietà la domanda se sia possibile creare quel clima di libertà interiore perché ogni capo possa esprimersi per quello che è, e non per come gli altri si aspettano da lui. É questa poi la fatica che ogni genitore fa ad accettare il proprio figlio diventato adulto. Per l’immenso amore e rispetto che ha per lui, non lo può più trattare da bambino, non lo può più difendere dai guai del mondo, ma deve porsi accanto a lui semplicemente come risorsa, come accompagnamento, senza la pretesa che per il semplice fatto di essere il suo genitore, lui debba ascoltare e obbedire. Tanto è vero tutto questo, che in un rapporto sano, liberante e costruttivo i figli se ne vanno, e se rimangono non è qualcosa di fisiologico, ma è dovuto ad una patologia della nostra società, perché non c’è una situazione possibile migliore. Cosa spinge allora a rimanere in una comunità capi a lungo nonostante l’età che avanza? Credo sia, onestamente, il sentirsi un po’ indispensabili, il pensare di aver capito il segreto delle cose e volerlo insegnare agli altri, in ciò contravvenendo in realtà ad uno dei capisaldi della scelta scout che è l’interdipendenza tra pensiero ed azione che vale anche per i capi: ognuno cresce perché fa le sue esperienze e, nemmeno con le migliori intenzioni, ha senso vivere per interposta persona. Confesso, a partire da me stessa, quasi mai ho sentito qualcuno che permanesse in comunità capi adducendo come motivazione quella dell’arricchimento personale e del prosieguo della propria formazione permanente. La maggior parte lo fa per spirito di servizio, perché c’è bisogno, per aiutare chi è in difficoltà. Ma siamo sicuri che sia proprio sempre così? È una legge che vale per i gruppi, ma può anche valere per i singoli, quella secondo la quale si cambia solo se si è costretti e credo sia una grazia da chiedere al buon Dio quella di farci capire quando è il momento di andare, un andare che sia un atto di amore per la comunità che si lascia perché si ha fiducia che questa può farcela anche senza di noi, perché si è lavorato per questo e per rendere la comunità più adulta, più responsabile anche se con meno esperienza. Chi scrive appartiene al novero dei meno giovani della sua comunità capi e scrive proprio dando voce a dubbi che settimanalmente pone innanzi tutto a se stessa, non è un attacco indiscriminato a chi giovane non è, la domanda sta – come ricordato all’inizio – nell’entità del divario. Riprendendo le esperienze di Luisa e Luigi, probabilmente l’età anagrafica ha portato a non far scattare quel circuito virtuoso di reciprocità di cui si è parlato, soprattutto perché oggi la differenza anche solo tra un quarantenne ed un ventenne è culturalmente molto più accentuata di 30 anni fa e questo ci deve spingere ad essere ancora più vigili. Forse la scelta di Luisa di andarsene prima di quanto avesse fatto Luigi dipende non tanto dalla variabile dell’età, quanto da quella del sesso: ma questa è tutta un’altra storia…!

lunedì 9 novembre 2015

LA RESPONSABILITÀ DELL’EDUCATORE NELLE ATTIVITÀ SCOUT: PROFILI PENALI

EDUCARE ATTRAVERSO L’AVVENTURA: IL RISCHIO CONSENTITO NELLE ATTIVITÀ SCOUT 
Sergio Colaiocco 1. Premessa; 2. Peculiarità delle attività scout; 3. La misura della diligenza richiesta all’adulto educatore; 4. Conclusioni. 1. PREMESSA La teoria del rischio consentito, nata in Germania come “erlaubtes risiko” 1 , è stata ripresa e fatta propria da dottrina e giurisprudenza le quali si sono esercitate nel mettere a fuoco l’ambito di ammissibilità nel nostro ordinamento di siffatta categoria giuridica, in particolare nei settori produttivi e dell’attività sportiva. L’individuazione degli ambiti di applicabilità della categoria del “rischio consentito” 2 non ha, però, sinora riguardato una tra le più diffuse realtà giovanili, l’attività scout, nella quale non raramente è messa a rischio l’incolumità personale dei giovani che vi partecipano e in cui, quindi, non può parlarsi d’imprevedibilità di eventi dannosi.3
 !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
1 Per approfondimenti H.H. Jescheck, Lehrbuch des Strafrechts 4° ed Berlin 1988, 360 ss. 2Rischio e pericolo sono termini spesso usati come sinonimi nel linguaggio comune. Nel campo del diritto penale, invece, i due vocaboli devono rimanere nettamente distinti; ciò anche se permane un nucleo ad essi comune consistente nel fatto che entrambi esprimono una relazione tra una situazione e un evento connotato negativamente. Tuttavia il ruolo che concretamente è stato assegnato al pericolo dal legislatore è diverso da quello che può essere assegnato al rischio. Il pericolo, infatti, serve, in via principale, ad anticipare la tutela dei beni giuridici a un momento antecedente la loro effettiva lesione. Il rischio, invece, nasce come categoria giuridica al momento dell’emersione della necessità di garantire determinate attività – lo sfruttamento delle miniere, l’automazione del lavoro nelle fabbriche, l’attività ferroviaria, il trasporto a motore – in cui non può parlarsi di imprevedibilità dell’evento dannoso ma alle quali, però, la società non intendeva rinunciare. 3 Ecco una breve panoramica della casistica. Il 21.2.1994 tre scout e il loro Capo sono investiti da un’autovettura mentre camminano nel Comune di Camerata Nuova, in Abruzzo, in ora notturna su strada provinciale; il conducente sarà condannato per omicidio plurimo colposo e guida in stato di ebbrezza. Il 7 Agosto 1996 nelle Dolomiti di Sesto muore un rover scivolando mentre percorre la ferrata “Aldo Rogel”; il procedimento sarà archiviato. L’8.12.2008 in un incidente sui monti di Brienno, sopra al Lago di Como, muore una Capo nel corso di un’escursione. Il 7.8.1999 in Val Chiavenna muoiono tre ragazze di Verona nel corso di un campo estivo mentre dormivano su una tenda sopraelevata, montata su un torrente. I sei Capi definiranno 11 Come mai quest’esclusione? Forse anche perché le attività scoutistiche, pur coinvolgendo in Italia oltre duecentomila giovani, sono state solo raramente oggetto di pronunce della Corte di Cassazione. Ciò in ragione del fatto che gli imputati sono ricorsi nella maggioranza dei casi a riti alternativi, in specie all’applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p. 4 Questa peculiarità sembra aver impedito, da un lato, alla giurisprudenza di pervenire ad articolate e motivate pronunce sia di merito sia di legittimità e, dall’altro, alla dottrina di dare il proprio contributo all’elaborazione di un percorso logico-giuridico utilizzabile sia dalla magistratura requirente sia da quella giudicante. Pare allora utile domandarsi se la categoria giuridica del rischio consentito, come fatta propria finanche dalla Corte di Cassazione, possa trovare applicazione anche in un settore particolare quale quello scout; ciò, infatti, permetterebbe di definire i casi nei quali l’adulto responsabile potrebbe andare esente da responsabilità pur in presenza di eventi negativi astrattamente prevedibili. Orbene, questo scritto, rinviando ad altre sedi per una ricostruzione storico- giuridica della teoria del rischio consentito vuol limitarsi a esaminarne, come detto, l’applicabilità all’attività scoutistica. Proprio per questo appare utile accennare a quali siano le peculiarità di quest’agenzia educativa. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!con patteggiamento a un anno e otto mesi di reclusione il procedimento penale. Il 30.6.2009 sul Pollino un rover cade da una parete di roccia; contusioni e lesioni. Il 4.1.2009 nel bellunese un rover di 16 anni scivola su un sentiero e muore. Il Capo e l’aiuto definiranno il procedimento penale con patteggiamento a un anno di reclusione. Il 15.3.2010 tre scout provocano un incendio vicino Casso mentre accendono un fuoco. L’ 11.12.2012 una scout di 17 anni è investita da un’auto mentre stava attraversando la strada a Casalmaiocco nel Lodigiano; il conducente è condannato, con rito abbreviato, a tre anni e quattro mesi di reclusione per omicidio colposo e guida in stato di ebbrezza. Il 4.1.2013 in Valbiondone, una ragazza quindicenne, nel giocare sulla neve con delle camere d’aria, non riesce a fermarsi e cade in un dirupo; tre Capi patteggeranno una pena di sei mesi di reclusione ognuno. 4 Al riguardo si è osservato che il dato esprime un’accettazione profondamente sentita, da parte di tutti coloro che conoscono “da dentro” lo scoutismo – Capi, genitori e ragazzi - che queste attività comportano rischi mai del tutto eliminabili. Inoltre manifesta soprattutto un atteggiamento psicologico caratteristico, molto diffuso fra le persone che fanno esperienze di vita nell’ambiente naturale: i loro comportamenti sono governati da spirito di solidarietà reciproca e da senso di responsabilità per le proprie azioni, anzitutto sul piano etico, forgiato dall’esperienza; a proposito dell’alpinismo si veda, in tal senso, Leonardo Lenti in La responsabilità civile degli accompagnatori non professionali nell’alpinismo e nello scialpinismo.
12 2. PECULIARITÀ DELLE ATTIVITÀ SCOUT
In Italia sono oggi presenti numerose associazioni aderenti al movimento scout che fanno propri i principi pedagogici di Lord Baden Powell. 5 Il movimento scout ha come scopo “l'educazione dei giovani mediante lo sviluppo delle proprie attitudini fisiche, morali, sociali e spirituali. Il metodo educativo si basa “sull'imparare facendo” attraverso attività all'aria aperta e in piccoli gruppi”.6 In quest'ottica è centrale la vita nella natura che costituisce per i giovani occasione per mettersi alla prova in attività avventurose per sviluppare la responsabilità e le capacità decisionali. Nell’educazione scout si fondono elementi appartenenti a varie discipline, anche sportive, assieme ad elementi caratteristici come le attività vissute in piccoli gruppi di minorenni, senza la presenza costante di adulti, abitualmente vissute all’aria aperta e alcune volte con compiti, denominati “missioni” o “hike”, in cui i giovani mettono alla prova le loro capacità. Elemento unificante di ogni attività scoutistica è, in ogni modo, la finalità educativa che permea ogni proposta fatta ai giovani. Ciò brevemente richiamato, iniziano a delinearsi le ragioni per cui l’attività scout è una proposta educativa che comporta necessariamente un incremento di rischio. E’ vero, infatti, che tutte le esperienze di crescita della persona, anche le più comuni, qualora non si limitino ad aspetti meramente intellettuali, comportano sempre problemi in ordine alla tutela dell’integrità fisica dell’educando. Si pensi ad esempio all’educazione di un bambino, ove il grado di rischio aumenta in proporzione ai margini di autonomia che i genitori progressivamente gli riconoscono.7 !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
5 Le tre associazioni più diffuse sono l'Associazione Guide e Scouts Cattolici Italiani (AGESCI) e il Corpo Nazionale Giovani Esploratori ed Esploratrici Italiani (CNGEI) per un totale al 2013 di oltre 200.000 soci. 6 Cfr. Giuseppe dell'Oglio, Alere Flammam. Breve storia dello scautismo in Italia, Lampi di stampa - 2010, p. 17. 7 L’educazione attraverso l’autonomia dal nucleo familiare originario è indicata, a contrario, come necessaria anche dalla Corte di Cassazione che ha ritenuto integrare il delitto di cui all’art. 572 c.p. (maltrattamenti in famiglia) in quelle condotte di ipercura e iperprotezione, che limitano lo sviluppo integrale della personalità e delle potenzialità dei figli (Sez. IV Sentenza n. 36503 del 2011). 13 Al contempo è però anche vero che lo scoutismo per le sue caratteristiche intrinseche comporta un aumento del rischio sia per le attività che propone, sia per le modalità con cui sono poste in essere. Sotto il primo profilo si osserva come nell’attività scout gli obiettivi educativi si raggiungono attraverso esperienze pratiche e metodi attivi, vissuti nella natura: ambiente privilegiato ove vivere l’avventura. A ciò si aggiunga che, accanto a dette attività caratteristiche ed esclusive del metodo scout, si affiancano attività proprie di altri settori quali il cicloturismo, la speleologia, l’escursionismo, il kaiakismo ecc. che sono discipline anch’esse, secondo alcuni, per se stesse pericolose. Sotto il secondo profilo – le peculiari modalità di svolgimento delle attività – le esperienze proposte sono vissute con ampi spazi di autonomia dai giovani; la maggior parte delle attività sono spesso vissute dai ragazzi senza la presenza costante dell’adulto educatore in quanto i giovani sono chiamati a vivere sotto la propria responsabilità le avventure propostegli. Per queste ragioni il metodo educativo scout comporta inevitabilmente, intrinsecamente, per i partecipanti un incremento del rischio. 8 E’ necessario allora verificare, seguendo la teoria del rischio consentito, se è permesso dal nostro ordinamento mettere a repentaglio l’incolumità personale dei partecipanti pur di realizzare le attività scout. Secondo la teoria del rischio l’ordinamento giuridico permette che beni giuridici quale, nel caso in esame, l’integrità fisica dei partecipanti, possano esser messi in gioco, nell’ambito di un bilanciamento di valori, in conformità a interessi che sono tali per il riconoscimento sociale di cui godono o in conformità a fonti giuridiche secondarie. Orbene sotto siffatti profili l’originale agenzia educativa in esame può controbilanciare il pericolo per la salute dei giovani che vi aderiscono con altri interessi giuridicamente rilevanti, sia adottando il criterio dell’adeguatezza sociale che quello giuridico. Il criterio dell’adeguatezza sociale trova il suo fondamento nel consenso sociale; l’attività rischiosa deve essere, cioè consentita socialmente, o almeno generalmente tollerata. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 8 Ciò poiché, come già detto, ci si riferisce qui alle attività tipicamente ed esclusivamente scout (vita di Squadriglia, missioni o hike, e non a quella parte di attività che costituiscono attività preparatorie all’avventura, o di contorno alle stesse, che lo scoutismo ha in comune con tutte le attività giovanili (giochi sul prato o nei campetti parrocchiali, attività teatrali ecc.). 14 Sotto quest’aspetto lo scoutismo, in oltre cento anni di vita, si è conquistato il riconoscimento derivante dal fatto di essere il più diffuso movimento giovanile nel mondo ma anche l’apprezzamento non solo da parte degli studiosi di pedagogia ma, soprattutto, da parte dei genitori che continuano, anno dopo anno, ad affidare i loro figli a quest’agenzia educativa9 . Il criterio dell’adeguatezza sociale, secondo noti orientamenti dottrinali, pecca però d’indeterminatezza e ciò a causa del riferimento che fa a canoni genericamente sociali sciolti da qualsiasi legame normativo tanto che in tal modo finisce per essere consentito “ciò che viene – anche a torto- tollerato dalla comunità sociale”.10 Una diversa lettura, invece, aggancia l’area del rischio consentito alle attività che sono disciplinate e autorizzate dalle competenti autorità; in dottrina si è osservato che “quando l’attività pericolosa risulta espressamente autorizzata … dall’autorità competente il ritaglio dell’area penalmente rilevante trova tracce più sicure” di talché il bilanciamento d’interessi nasce con evidenza dalla necessità di risolvere l’antinomia insita nell’ordinamento giuridico.11 Per ciò che concerne anche questo secondo criterio lo scoutismo ha avuto autorizzazioni da parte dell’autorità e riconoscimenti formali dal nostro ordinamento sin dal suo inizio quando la prima delle associazioni scout fu eretta in Ente Morale nel 191612. Oggi anche per l'Associazione Italiana Guide e Scouts d’Europa vi è un Decreto del Presidente della Repubblica del 1985.13 !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 9 Giova, incidentalmente, rilevare come anche nel caso dell’attività scoutistica, in analogia a quanto insegna la Suprema Corte in tema di attività sportiva, sussiste un onere dei genitori di acquisire informazioni prima dell’affiliazione del figlio in quanto il consenso “si ha al momento della sottoscrizione dell’adesione, ossia al momento del tesseramento col quale si accetta espressamente e consapevolmente tutte le regole e, dunque, anche quelle che presidiano la componente di alea insita nella attività prescelta. In linea teorica, può anche configurarsi, in caso di esiti pregiudizievoli per l'integrità fisica nonostante il rispetto delle norme regolamentari, una presunzione di preventiva accettazione di quel pregiudizio da parte dell'atleta infortunato, ove l'accettazione sostanzia non tanto un atto di disponibilità del proprio corpo, quanto piuttosto consapevolezza e presa d'atto del possibile rischio di danni alla sua persona in dipendenza di corretta pratica sportiva, nel senso di attività agonistica correttamente praticata” (Corte di Cassazione, sez. 5 nr. 17923 del 13.2.2009) 10 Fiandaca-Musco op. cit. pag. 404 11 Giustizia penale 2006, O. Custodero, Spunti di riflessione a margine della responsabilità per colpa, nr. 523. 12Vedi D.L. 21 dicembre 1916 n. 1881, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 2 febbraio 1917 n. 27. 13 Vedi il Decreto del Presidente della Repubblica nr. 240 del 18.3.1985 15 Al di là, comunque, dei due profili sinora esaminati appare assorbente la circostanza che nello scoutismo l’incremento di rischio è finalizzato all’educazione della persona e che detta finalità è costituzionalmente tutelata e favorita. L’azione educativa, infatti, è attribuita, in primo luogo, dalla Costituzione alla famiglia (artt. 29 e 31) e alla scuola (art. 33) che hanno un ruolo decisivo per il pieno sviluppo della persona umana concorrendo a rimuovere gli ostacoli che impediscono la partecipazione di tutti all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese secondo quanto auspicato dall’art. 3 della Costituzione.14 Al contempo vi è nella Carta Costituzionale un esplicito riconoscimento del fatto che il percorso formativo della persona si nutre anche dell’apporto di formazioni sociali aggiuntive alle quali l’individuo partecipa e nelle quali sviluppa la sua personalità. E’ di tutta evidenza, infatti, che non hanno compiti formativi solo la famiglia e la scuola ma che esistono una molteplicità di formazioni sociali intermedie alle quali l’individuo partecipa nel suo divenire. La Costituzione, agli artt. 18 e 19, dà un pieno riconoscimento anche a queste formazioni intermedie costituite da associazioni culturali, politiche, sportive e religiose che contribuiscono a formare la personalità accrescendo le conoscenze e le esperienze personali dell’individuo. Vi sono, quindi, una molteplicità di agenzie educative che hanno come finalità di sostenere l’esercizio della funzione formativa; ciò da un lato creando forme di sostegno alla genitorialità e dell’altro rinforzando l’azione delle istituzioni scolastiche. In particolare nell’ambito di una società pluralista, quale quella attuale, vi è un composito panorama di agenzie educative che propongono un’offerta diversa non solo per obiettivi ma anche per mezzi e strumenti utilizzati. Ebbene se in Costituzione vi è “un pieno riconoscimento del diritto all’educazione intesa in senso ampio come percorso formativo che conduce l’individuo alla pienezza delle sue potenzialità” 15 detto percorso formativo è affidato anche alle formazioni sociali intermedie tra le quali rientra pacificamente anche l’associazionismo scout. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 14 Per approfondimenti vedi Margherita Marzario, Rilettura dell’educazione nella nostra Costituzione. 15 Emergenza educazione-Costituzione e diritto formativo; a cura di Francesca Mazzucchelli e Lino Sartori- Franco Angeli pag.20. 16 In conclusione sul punto. E’ allora possibile giungere ad affermare che anche allo scoutismo è applicabile la categoria giuridica del rischio consentito; ciò in quanto, se è vero che siamo alla presenza di un’attività che mette in pericolo l’incolumità fisica dei giovani, è anche vero che essa ha finalità educativa, che è tutelata e favorita dalla Costituzione, è socialmente accettata ed ha riconoscimenti da fonti secondarie dell’ordinamento. 3.
 LA MISURA DELLA DILIGENZA RICHIESTA ALL’ADULTO EDUCATORE
 L’accertata coesistenza e concorrenza di più valori richiede, dunque, un bilanciamento tra gli interessi in gioco; bilanciamento che, quindi, deve consentire di salvaguardare ambedue gli interessi senza paralizzare le specificità proprie ed esclusive del metodo dello scout. Si deve allora passare, per completare l’esame che costituisce l’obiettivo di questo scritto, all’individuazione delle condizioni al ricorrere delle quali è consentito affrontare l’alea del maggior pericolo che lo scoutismo comporta; condizioni che comportano l’esenzione da responsabilità anche in caso di eventi negativi ai soggetti partecipanti. In altri termini: quali sia la misura della diligenza richiesta all’adulto educatore nel realizzare le attività scoutistiche per rimanere nell’area del rischio consentito. Orbene così posta la questione, essa non può che risolversi, in linea con il senso del presente lavoro, applicando alla fattispecie in esame, quella dell’attività scout, i principi enucleati dalla giurisprudenza in tema di rischio consentito nei delitti colposi. L’ordinamento ha elaborato, come noto, per tutti i delitti colposi, l’espediente dell’ ”agente modello” -homo eiusdem conditionis et professionis- per alludere a un parametro di riferimento che, da un lato tenga conto delle caratteristiche personali e professionali dell’agente concreto, e dall’altro, però consenta di pervenire a una standardizzazione della regola. Questo significa, per riprendere un esempio frequente della manualistica, che colui il quale si pone alla guida di un autoveicolo, dovrà essere valutato alla stregua dell’automobilista modello, anche se non è convenientemente addestrato e, persino, se non è in possesso della patente di guida. 17 Orbene, siffatti criteri generali si atteggiano, secondo dottrina e giurisprudenza, in modo differente nel caso delle attività rischiose. Infatti, in queste, l’evento dannoso appare per definizione prevedibile, perché altrimenti l’attività non sarebbe definita rischiosa, e se fossero applicati i criteri generali si giungerebbe a giudizio di responsabilità in tutti i casi di eventi negativi proprio in quanto prevedibili “in re ipsa”. Ciò brevemente richiamato giova qui soffermarsi sul fatto che dottrina e giurisprudenza pervengono a diverse conclusioni in ordine ai parametri da utilizzare per individuare la misura della diligenza nelle attività rischiose. Parte della dottrina afferma, infatti, che nell’ambito delle attività rischiose il giudice, nel formulare il giudizio sulla sussistenza della colpa dovrebbe interpretare i concetti di negligenza e d’imprudenza con il “grado di elasticità che si rende necessario per far sì che la prevedibilità, in astratto sempre possibile, della verificazione di eventi dannosi o pericolosi non impedisca lo svolgimento dell’attività”.16 La teoria del rischio consentito autorizzerebbe, secondo tali autori, una delimitazione della misura della diligenza richiesta; la sua funzione sarebbe, pertanto, quella di restringere l’oggetto del divieto penale rendendo così possibile l’attività rischiosa. Siffatta lettura della misura della diligenza nelle attività rischiose consentite è, però, del tutto disattesa dalla giurisprudenza di legittimità. Afferma la Corte Suprema, infatti, che “quando si entra nel campo del c.d. "rischio consentito" (o si accentua il rischio già presente in queste attività) l'ordinamento consente di svolgere le attività pericolose, o di svolgerle secondo modalità pericolose, ma richiede ulteriori presidi cautelari idonei a evitare (o a diminuire) il rischio del verificarsi di eventi dannosi (per es. l'ordinamento può consentire che vengano svolte gare di velocità automobilistiche ma, ove le autorizzi, richiede ulteriori garanzie a tutela dei piloti, degli addetti al circuito, degli spettatori; garanzie inimmaginabili nell'ordinaria circolazione stradale che già costituisce un'attività pericolosa).E dunque "rischio consentito" (o aggravamento del "rischio consentito") non significa esonero dall'obbligo di !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 16 I. Caraccioli, Manuale di diritto penale. Parte gen., Padova, 1998,329; R. PettinatiG.P.Volpe, Omicidio colposo, Padova, 2005, 276 ss. 18 osservanza delle regole di cautela ma semmai rafforzamento di tale obbligo soprattutto in relazione alla gravità del rischio: solo in caso di rigorosa osservanza di tali regole il rischio potrà ritenersi effettivamente "consentito" per quella parte che non può essere eliminata. Insomma l'osservanza delle regole cautelari esonera da responsabilità per i rischi prevedibili, ma non prevenibili, solo se l'agente abbia rigorosamente rispettato non solo le comuni regole cautelari ma altresì quelle la cui osservanza è resa necessaria dalle caratteristiche e dalle modalità che aggravano il rischio richiedendo l'adozione di ulteriori e più rigorose regole cautelari.”17 Si può, pertanto, affermare che non è possibile per le attività rischiose consentite utilizzare come termine di raffronto concreto l’agente modello. Deve, invece, essere accolto in questa sede il più rigoroso criterio della giurisprudenza secondo cui deve essere assunto come parametro il soggetto che opera specificamente in quell’attività che, in quanto tale, è tenuto alla conoscenza non solo delle norme cautelari generiche ma anche di quelle specifiche proprie del settore e in quanto tali destinate esclusivamente a chi esercita tale attività. Siamo quindi in presenza non di un limite alle cautele ma dell’obbligo di utilizzare una diligenza rafforzata o meglio qualificata. In tal senso anche recentemente la Corte di Cassazione: “nelle attività pericolose consentite, poiché la soglia della punibilità dell'evento dannoso è più alta di quanto non lo sia rispetto allo svolgimento di attività comuni, maggiori devono essere la diligenza e la perizia nel precostituire condizioni idonee a ridurre il rischio consentito quanto più possibile. Ne consegue che l'impossibilità di eliminazione del pericolo non può comportare un’attenuazione dell'obbligo di garanzia, ma deve tradursi in un suo rafforzamento (Sez. 4, n. 7026 del 15/10/2002 - dep. 13/02/2003, Loi e altri, Rv. 223748)”. 18 4.
 CONCLUSIONI
Le attività scoutistiche possono rientrare a pieno titolo tra quelle cui è applicabile la categoria giuridica del rischio consentito, grazie alla quale eventi negativi, astrattamente inquadrabili come abbandono di minore, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 17 Vedi, ancora una volta, Corte di Cassazione, Sez. IV, Sentenza n. 4107 del 2009. 18 Ex plurimis, Corte di Cassazione, Sez. 4, Sentenza n. 4999 del 2014. 19 lesioni o addirittura omicidio colposo, possono non dar luogo a responsabilità penale in quanto trattasi di attività, accettata socialmente e comunque autorizzata dall’ordinamento, la cui finalità educativa è tutelata e favorita dalla Costituzione. La riconducibilità alla categoria del rischio consentito appare, però, possibile solo al ricorrere delle condizioni richieste e, cioè, quando l’attività proposta abbia una finalità educativa, rientri tra quelle tipicamente scout e infine quando la situazione rischiosa permetta di pervenire a obiettivi educativi non raggiungibili con attività diverse e meno rischiose.19 Verificata la sussistenza dei presupposti citati è, altresì, necessario, sotto il profilo più propriamente colposo, che l’adulto educatore scout abbia posto in essere non solo le ordinarie regole cautelari ma anche gli ordini e le discipline di settore e cioè, per quel che qui interessa, i regolamenti, qualsiasi denominazione essi assumano, emanati dai preposti organi delle associazioni scout nei quali si prevedono le modalità di realizzazione delle varie attività scoutistiche.20 Corollario di questo principio e che l’adulto educatore che propone attività proprie dello scoutismo è tenuto a realizzarle così come le proporrebbe un educatore adeguatamente formato e preparato; mentre chi fosse privo di tali abilità e capacità dovrebbe astenersi dall’agire. Qualora, invece, si ostinasse ad agire dovrebbe sforzarsi di farlo secondo !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 19Vedi a tal proposito Corte di Cassazione, sez. 4, Sentenza n. 4107 del 12/11/2008, secondo cui il “rischio potrà effettivamente ritenersi consentito solo per quella parte che non può essere eliminata” se non a fronte della paralisi dell’attività consentita. Da ciò sembra corretto dedurre che il rischio, se è ineliminabile, deve anche essere assunto secondo il criterio del rischio minimo necessario ovverosia rispondere al criterio di necessità per il raggiungimento degli obiettivi. Il rischio consentito quindi è solo quello indispensabile in vista degli effetti positivi che questo è in grado di generare cioè indispensabile secondo i mezzi tipici dei principi scoutistici. 20L’hyke è una prova nella quale è affidata una missione a due scout di circa 15 anni con percorsi impegnativi e realizzazioni tecniche specializzate. Il campo di Squadriglia, invece, è effettuato da un gruppo di otto ragazzi guidati da un minorenne della durata di 3-4 giorni senza la presenza di adulti. Orbene quelle descritte sono alcune delle occasioni di crescita previste e normate dalle associazioni scout perché proprie ed ineliminabili dello scoutismo e sono attività che solo un adulto educatore formato e specializzato può ben valutare quando affidare ai ragazzi. E’ evidente, infatti, che sono attività improponibili a giovani che non abbiano effettuato un percorso di preparazione progressivo attraverso sfide sempre più impegnative. La regola cautelare di settore è allora, in caso di attività autonome dei minori in assenza di adulti, il percorso di formazione dei ragazzi poiché solo in tal modo è possibile limitare la misura del rischio, in virtù degli obiettivi educativi che genitori e Capi-educatori si ripromettono di raggiungere, e renderlo ragionevolmente consentito. 20 quella misura, a rischio di vedersi imputata l’eventuale conseguenza lesiva a titolo di colpa, sotto la forma di colpa per assunzione21. E’, dunque, rilevante non solo il rispetto delle regole del settore ma, trattandosi di diligenza qualificata, anche il percorso di formazione compiuto dall’adulto educatore in quanto l’applicazione delle regole di settore dovrà essere effettuata in concreto utilizzando, come detto, non il parametro dell’agente modello ma quello del professionista del settore che è in grado di riconoscere e gestire le situazioni di rischio. Ciò detto in ordine all’osservanza delle regole cautelari 22 devono applicarsi, si richiama per mera completezza espositiva, anche nei settori in cui il rischio è consentito, i principi generali in tema di responsabilità colposa circa il necessario successivo accertamento in ordine alla sussistenza del nesso causale in specie con riferimento alla effettiva idoneità di quella cautela, richiesta dalla normativa di settore, a evitare l’evento dannoso. * * * * Il secondo intervento ha ad oggetto la responsabilità penale del capo scout adulto nelle attività svolte autonomamente dai ragazzi anche minorenni. Se prima abbiamo parlato di diligenza che l’adulto deve avere nell’espletamento delle attività e nel far espletare tali attività ai ragazzi sotto la sua sorveglianza e vigilanza, ora affronteremo il problema dei rischi che comportano le attività svolte autonomamente dai ragazzi senza la presenza dell’adulto. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 21 La colpa per assunzione si caratterizza per la violazione di più norme cautelari nell’ambito della stessa condotta; infatti si manifesta in imperizia (il non svolgere adeguatamente il compito che ci si è impegnati a realizzare); presuppone una negligenza (ci si assume un compito che non si è in grado di adempiere); non si è diligenti (nel tenere in considerazione le proprie condizioni e capacità). E’ in tal senso evidente il caso esaminato dalla Corte di Cassazione secondo cui sul medico “specializzando incombe l'obbligo della osservanza delle leges artis; ove egli non sia ancora in grado di affrontare le difficoltà del caso specifico, ha l'obbligo, piuttosto che mettere a rischio la vita e l'incolumità del paziente, di astenersi dal direttamente operare. (Cassazione penale , sez. IV, 06 ottobre 1999, n. 2453 Tretti) 22 Per completezza si ricordi come l’imprevedibilità, in senso proprio, concerne il rispetto delle regole cautelari ed esclude la colpa nei casi in cui non consenta di individuare, sulla base delle informazioni effettivamente disponibili, una regola cautelare per la bassa probabilità che l’evento si verifichi. Differente è il fatto eccezionale che concerne, invece, il nesso causale che risulta escluso quando vi è una probabilità statisticamente minima di verificazione dell’evento. 21
 RESPONSABILITÁ DELL’ADULTO NELLE ATTIVITA’ AUTONOME DEI RAGAZZI Agostino de Caro Sommario: 1. Premessa - 2. Il perimetro della riflessione - 3. Segue: le coordinate giuridiche: dolo e colpa - 4. Segue: l’abbandono di minori e la sua non configurabilità - 5. Un punto fermo: il valore educativo e sociale dello scautismo - 6. Le peculiarità del metodo scout - 7. Segue: la fondamentale importanza dell’autonomia riconosciuta ai ragazzi - 8. Il valore delle regole specifiche contenute nei regolamenti metodologici interni e degli statuti - 9. Segue: la declinazione concreta delle modalità in cui ci compendia l’autonomia dei ragazzi/e - 10. I rischi connessi all’autonomia - 11. La prevedibilità delle condotte e il concorso/cooperazione - 12. I limiti della responsabilità dell’adulto nelle attività autonome dei ragazzi – 13. Conclusioni. 1. Premessa. Il tema della mia riflessione coinvolge i vari profili connessi alla responsabilità dell’adulto per fatti che possono verificarsi nel corso delle attività autonome dei ragazzi e più in particolare gli aspetti di rilievo penale collegati a fatti illeciti commessi nelle attività autonome o ad incidenti (intendendo il temine nella sua declinazione di fatto colpevole) nei quali i ragazzi stessi rimangono vittime. Non è l’unico ambito problematico della vita scout, ma è sicuramente quello più emblematico perché riguarda in modo specifico il perimetro del dovere di controllo e vigilanza (e la sua esatta delimitazione) rispetto all’idea stessa di consentire – anzi agevolare – attività autonome da parte di ragazzi/e, soprattutto minorenni, per definizione realizzate senza la partecipazione degli adulti. 2. Il perimetro della riflessione. Una premessa indispensabile. Quando parliamo di responsabilità penale dell’adulto nelle attività alle quali partecipa o in quelle autonome dei ragazzi non ci riferiamo alla responsabilità dolosa in senso stretto che si realizza quando l’adulto agisce con la coscienza e la volontà di cagionare un fatto che costituisce reato per l’ordinamento giuridico italiano: in 22 questi casi, infatti, ne risponderà pienamente, a titolo di dolo, secondo le regole del codice penale. Nessuna eccezione è ipotizzabile né oggettivamente possibile in funzione della natura e della peculiarità dello scautismo e nessuna particolarità richiede uno studio specifico. In tale ottica, quindi, se un adulto compie atti illeciti che integrano un reato doloso, come, ad esempio e senza pretesa di una elencazione completa, abuso dei mezzi correzione, maltrattamenti verso fanciulli, violenza sessuale o induzione alla prostituzione minorile, porto abusivo di armi, abbandono di rifiuti, reati ambientali, abbandono di minori o incapaci, danneggiamento, incendio ecc. ne risponderà secondo le normali regole e sempre che, ovviamente, sussistano e saranno riscontrati nella sua condotta gli elementi normativi che tipizzano la relativa fattispecie incriminatrice penale. Ugualmente, se la sua condotta concorre con quella dei ragazzi minorenni o con altri adulti ne risponderà a titolo di concorso nel reato doloso, senza alcuna limitazione. L’adulto può concorrere anche moralmente con il ragazzo (o con altra persona adulta) ove risulti un suo contributo concreto in termini di istigazione (fa nascere il proposito criminoso o concorre alla sua nascita) o di determinazione (lo rafforza). Siamo, però, al cospetto di un ambito di “normalità penale” che travalica il ruolo e la funzione dell’educatore e la specificità dello scautismo. Il problema della peculiarità del metodo scout e delle sue attività si pone, invece, nelle ipotesi in cui il fatto illecito (anche doloso) è commesso dai ragazzi nel corso di un’attività autonoma (e si può escludere un concorso materiale dell’adulto o una istigazione e/o determinazione dello stesso) ovvero, ed è l’ipotesi più ricorrente, nell’attività stessa si verifica un fatto colposo con danni a persone o cose che, sul piano giuridico, coinvolge il dovere di vigilanza e controllo dell’adulto. In questi casi, infatti, nasce rispettivamente il problema della responsabilità penale dell’adulto educatore per concorso nel delitto doloso (fondato sulla omissione di vigilanza e quindi su una sorta di dovere giuridico di impedire l’evento) o della responsabilità per colpa. Quest’ultima, in particolare, si riscontra quando l’agente ha agito senza volere la produzione dell’evento dannoso o pericoloso, ma lo ha determinato per negligenza, imprudenza, imperizia oppure non osservando leggi, regolamenti, ordini o discipline espressamente previste. 23 3. Segue: le coordinate giuridiche: dolo e colpa. È interessante, in premessa, comprendere sul piano giuridico le connotazioni tipiche dei profili sopra richiamati onde delineare il perimetro della responsabilità dell’adulto educatore scout nelle attività autonome dei ragazzi. L’ordinamento penale non si limita a proibire soltanto le condotte finalisticamente indirizzate alla lesione o alla messa in pericolo dei beni stessi, ma pretende altresì che qualsiasi condotta sia comunque realizzata con modalità tali da evitare che ne consegua la lesione o la messa in pericolo di determinati beni. Nella previsione di ogni reato colposo è, dunque, implicita la pretesa che ciascuno dei consociati, nelle innumerevoli circostanze della vita di relazione in cui si muove ed opera, controlli i decorsi causali connessi ai suoi comportamenti, di modo che non ne derivi, sia pure come conseguenza da lui non voluta, danno o pericolo per i beni a cui l’ordinamento ritiene di assegnare una così intensa protezione. La violazione di questa generale regola di condotta costituisce il presupposto per l’imputazione di un evento di danno o di pericolo a titolo di colpa ed il nucleo di illiceità di qualsiasi reato colposo. La colpa costituisce, rispetto al dolo, la forma di colpevolezza di più tardiva acquisizione, meno grave, legislativamente eccezionale e minoritaria. La colpa è, al pari del dolo, un atteggiamento antidoveroso e, quindi, riprovevole della volontà. L’agente aveva la possibilità ed il dovere di essere cauto ed attento, ma ha agito con leggerezza: siffatto modo di comportarsi giustifica la punizione del reato colposo. All’autore, cui si imputa il fatto, si rimprovera, dunque, di non aver attivato quei poteri di controllo che doveva e poteva attivare per scongiurare l’evento lesivo. Il codice, all’art. 43 terzo comma, recita: “Il delitto è colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza, imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”. Da questa definizione, integrata col disposto del primo comma dell’art. 42 c.p., si desume che, per l’esistenza del reato colposo, occorre innanzitutto un’azione commessa con coscienza e volontà, in altre parole, 24 un atteggiamento attribuibile al volere del soggetto. Si richiede, poi, la mancanza di quella volontà dell’evento che caratterizza il dolo. Si ha colpa generica quando il carattere colposo della condotta va ricondotta a violazione di norme di cautela dettate dalla comune prudenza ed esperienza. L’imprudenza è l’avventatezza, l’insufficiente ponderazione ed implica sempre una scarsa considerazione per gli interessi altrui; la negligenza esprime un atteggiamento psichico diverso, si tratta della trascuratezza, della mancanza o deficienza di attenzione oppure di sollecitudine, in tale ambito va collocata la “colpa per assunzione”, tipica di chi assume un incarico senza provvedere a munirsi del personale specializzato e dei dati tecnici necessari a dominare l’opera quando le sue cognizioni e competenze non siano all’altezza del compito accettato. Per quanto concerne l’imperizia, è generalmente riconosciuto che, per potersi parlare di responsabilità colposa, non basta la semplice deficienza di abilità professionale, occorre un’insufficiente preparazione o un’inettitudine di cui l’agente, pur essendo consapevole, non abbia voluto tener conto. Per affermare che vi è stata negligenza, imprudenza o imperizia è necessario stabilire preventivamente quale fosse la misura della diligenza richiesta, stabilita in base alla determinazione della misura della diligenza necessaria a scongiurare danni o pericoli per i beni tutelati. Il giudizio di prevedibilità ed evitabilità dell’evento, in altre parole, deve essere effettuato ex ante in base al parametro oggettivo dell’homo eiusdem professionis et condicionis: la misura della diligenza, della perizia e della prudenza dovute sarà quella del modello di agente che svolga la stessa professione, la stessa attività dell’agente reale. La prevedibilità dell’evento rende necessaria la esistenza di una regola cautelare, idonea a prevenire; essa deve avere un carattere modale, deve, cioè, essere prevista e indicata con precisione la modalità e i mezzi ritenuti necessari a prevenire il verificarsi dell’evento (Cass. Sez. IV, n. 16761/10). Nella colpa specifica, invece, l’elemento psicologico è ricondotto all’inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline, dettate con specifico riferimento all’ambito di condotta di cui si tratta. Non tutte le leggi, quindi, ma solo quelle che mirano allo scopo preventivo accennato possono essere fonte di responsabilità colposa. L’osservanza delle regole di diligenza deve avere ovviamente la potenzialità (valutata in concreto) di poter evitare il fatto. 25 Non è consentito parlare di colpa se nel caso concreto non può essere mosso al soggetto il rimprovero di aver trascurato le precauzioni a cui era tenuto secondo la normale diligenza. La prevedibilità e l’evitabilità dell’evento costituiscono i criteri di individuazione delle misure precauzionali da adottare nelle diverse situazioni concrete giacché il risultato che il soggetto non è in grado di impedire non gli può essere posto a carico, rappresentando nei suoi confronti una mera fatalità, esterno alla sua sfera di influenza e di intervento. La misura della diligenza richiesta incontra quindi due limiti fondamentali. In primo luogo sono oggettivamente imputabili all’autore tutte e solo le conseguenze obiettivamente prevedibili, quelle cioè prevedibili da un agente ipotetico che si fosse trovato nella stessa situazione dell’autore: restano tagliate fuori dalla fattispecie oggettiva dei delitti colposi le ipotesi di decorso causale abnorme, quindi oggettivamente non prevedibili; ma si dovrà tener conto, per converso, delle particolari conoscenze dell’agente concreto, che rendessero da parte sua prevedibile ciò che oggettivamente sarebbe da considerarsi imprevedibile. Un secondo limite si ricava dal concetto di rischio consentito, o rischio socialmente adeguato, espressione con cui si indica quella misura di rischio, praticamente ineliminabile in molte attività, non rinunciabili come elemento di sviluppo della vita collettiva. Con tale espressione si allude al fatto che queste attività, ancorché pericolose, sono consentite dall’ordinamento per il loro carattere di indispensabilità o grande utilità nella vita sociale. Solo le condotte che suscitano pericoli soverchianti rispetto alla misura di questo rischio socialmente adeguato possono risultare rilevanti per un reato colposo. Secondo parte della dottrina (Fiandaca-Musco), per la determinazione dei contenuti specifici del dovere di diligenza giocano un ruolo anche i principi della divisione del lavoro e dell’affidamento. Quanto al primo principio, si parla di culpa in eligendo quando sia violato, da parte di chi riveste un ruolo gerarchicamente sovraordinato, l’obbligo prudenziale di scegliere in modo appropriato i propri collaboratori e di controllarne l’operato. Solo a queste condizioni diviene rilevante il fenomeno della delega e del conseguente trasferimento di funzioni, che implica, nei congrui casi, anche il trasferimento del dovere di diligenza e della corrispondente responsabilità colposa. 26 In base al principio dell’affidamento, colui che agisce nel rispetto dei doveri di diligenza oggettiva è legittimato a fare affidamento su un comportamento egualmente diligente dei terzi, la cui condotta interferisce con la propria. Tale principio, che fornisce un criterio risolutivo quando si tratta di stabilire l’esistenza di una responsabilità per colpa in relazione al fatto di un terzo, sia esso doloso o colposo, subisce delle eccezioni. La possibilità di far affidamento sul comportamento diligente di un terzo viene meno nei casi in cui particolari circostanze lascino presumere che il terzo medesimo non sia in grado di soddisfare le aspettative dei consociati. La seconda eccezione si riferisce alle ipotesi in cui l’obbligo di diligenza si innesta su di una posizione di garanzia nei confronti di un terzo incapace di provvedere a se stesso. Una volta accertata in sede di tipicità la violazione del dovere obiettivo di diligenza, il rimprovero di colpevolezza viene fatto dipendere dall’accertamento dell’attitudine del soggetto, che ha in concreto agito, ad uniformare il proprio comportamento alla regola di condotta violata; tale verifica dovrebbe tener conto del livello individuale di capacità, esperienza e conoscenza del singolo agente. L’evento deve rappresentare una conseguenza necessaria non tanto della semplice azione materiale, quanto piuttosto dell’azione che contrasta col dovere oggettivo di diligenza. L’evento, in altri termini, deve apparire come una concretizzazione del rischio che la norma di condotta violata tendeva a prevenire. L’evento lesivo deve appartenere al tipo di quelli che la norma di condotta mirava a prevenire, se così non fosse, la responsabilità colposa si ridurrebbe a mera responsabilità oggettiva basata sul semplice nesso di causalità materiale. Per completare il quadro dei concetti giuridici di riferimento non va dimenticata una ulteriore possibile declinazione del c.d. principio dell’affidamento, secondo la quale i minori affidati ad un’associazione e le loro famiglie confidano nella correttezza e competenza di chi assume una responsabilità di controllo e vigilanza. 4. Segue: l’abbandono di minori e la sua non configurabilità. Solo per completezza va analizzata anche la fattispecie penale descritta dall’art. 591 c.p.p. come abbandono di minori e incapaci che si realizza quando “chiunque” abbandona un minore di anni quattordici (la cui incapacità di intendere e volere si presume) ovvero una persona incapace 27 per malattia del corpo o della mente e della quale abbia la custodia o debba avere cura. La fattispecie si riferisce alle persone incapaci o ai minori di anni quattordici e la relativa condotta di abbandono si concretizza nel momento in cui il soggetto agente volontariamente lascia, anche solo temporaneamente, in balia degli eventi la persona di cui dovrebbe curarsi. La norma punisce qualsiasi azione o omissione contrastante col dovere giuridico di custodia, idonea a produrre un pericolo, anche solo potenziale, di una lesione dell’incolumità (Cass. 22.4.2005 n. 15245). L’elemento psicologico richiesto è il dolo, la coscienza e volontà, cioè, di abbandonare la persona affidata. In questa prospettiva, deve sussistere la consapevolezza di abbandonare il soggetto passivo, che non sia capace di badare a se stesso, in una situazione di pericolo di cui si abbia l’esatta percezione (Cass. Sez. V. n. 15147/07; Cass. Sez. V, n. 7556/04). E’ particolarmente interessante una decisione (Cass. Sez. V, n. 11655/12) che ha ritenuto sussistente il delitto di abbandono di minori a carico di un autista del servizio di trasporto scolastico che abbandono il minore consentendo che lo stesso scenda dal bus prima del raggiungimento della struttura scolastica e, pertanto, prima dell’affidamento al personale scolastico e, a causa delle condizioni impervie della strada resa precaria dai una recente nevicata, cada a terra procurandosi lesioni. Nel caso di specie, però, l’autista aveva precise consegne amministrative violate. Dalla massima non è apprezzabile la connotazione psicologica e le reali condizioni del fatto nonché l’età del minore e la distanza dalla scuola. Si deve, però, ritenere che sia comunque stato dimostrato il dolo generico richiesto dalla norma incriminatrice. E’ evidente che la ricorrenza di tale fattispecie è esclusa categoricamente tutte le volte che manchi tale connotazione psicologica e l’abbandono sia meramente colposo o dovuto a fatti accidentali. Bisogna distinguere tra “abbandono”, il cui significato coinvolge condotte di disinteresse nei confronti del minore, lasciato a se stesso in condizioni di pericolo e tutto ciò che, pur potendo concretizzare dal punto di vista materiale situazioni nelle quali il minore si trova ad affrontare da solo un pericolo, non hanno questa connotazione essenziale ma implicano scelte educative anche forti. A maggior ragione, dunque, è difficile ritenere ipotizzabile la fattispecie se il minore partecipa ad un’attività insieme ad altri ragazzi, minori anch’essi ma coordinati da uno o più ragazzi con più di 14 anni, ove il controllo è comunque assicurato e la mancanza dell’adulto non è mai un 28 “abbandono” ma una precisa modalità prevista dal metodo educativo applicato. 5. Un punto fermo: il valore educativo e sociale dello scautismo. Fatte queste necessarie precisazioni, si può entrare nello specifico argomento a me affidato. Il tema è complesso e non ho alcuna velleità di trattarlo compiutamente. Mi prefiggo, sperando di riuscirci, solo lo scopo di individuare alcuni spunti utili a ricostruire in modo compiuto la traccia indicata. Soprattutto, ed è la premessa che subito metto in campo, vorrei selezionare, dagli argomenti giuridici tipici sottostanti alla materia della responsabilità dell’educatore, quelli applicabili allo scautismo, dividendoli da quelli non utilizzabili perché dissonanti rispetto alle peculiarità del metodo scout, alle caratteristiche, cioè, che ne fanno un percorso educativo riconosciuto per la sua positività. In questo senso, i tradizionali concetti di dovere di vigilanza e di controllo, di obbligo giuridico di impedire l’evento, di posizione di garanzia, di responsabilità derivata, di diligenza, prudenza e perizia, devono essere declinati in una prospettiva che tenga presente il metodo scout, le sue caratteristiche nucleari dalle quali discendono anche le sue enormi e riconosciute potenzialità educative. La riflessione prende spunto da una considerazione di fondo: le attività scout hanno un particolare valore educativo che le rendono utili allo sviluppo armonico della personalità dei ragazzi/e che vi partecipano. La personalità rappresenta il profilo dinamico della persona umana, la sua evoluzione nell’ambito della quale il momento della formazione svolge un ruolo nevralgico. Entrambi i profili sono messi al centro del cosmo giuridico (art. 2 Cost.) dall’ordinamento che, in particolare, riconosce ai segmenti rientranti nel più ampio genus “sviluppo della personalità” tutti i diritti fondamentali afferenti alla persona umana e li riferisce anche alle formazioni sociali intermedie, indispensabili allo sviluppo della personalità. In questa prospettiva, l’educazione nell’ambito delle associazioni educative è valutato dalla Costituzione come essenziale per lo sviluppo armonico della personalità. La evidente utilità sociale ed educativa delle attività scout e dello scautismo, condivisa da tutta la scienza pedagogica, consente di valutarle positivamente e di collocarle all’interno dell’ordinamento giuridico al pari di altre più studiate attività ugualmente “positive”, come, ad esempio, lo sport. Un parallelo è, infatti, possibile perché entrambi gli ambiti contribuiscono allo sviluppo della persona, pur coinvolgendo aspetti anche molto diversi tra loro. In particolare, lo scautismo è 29 innanzitutto un metodo educativo che fa contribuisce alla crescita ed allo sviluppo della personalità dei ragazzi/e contribuendo alla formazione. A questa iniziale considerazione – e proprio in conseguenza di essa - si deve aggiungere che, riconosciuto il valore delle attività scout e la loro indiscutibile funzione di formazione dei ragazzi/e, è doveroso valutarle e giudicarle, al pari dello sport, alla luce delle peculiarità intrinseche, senza poter indiscriminatamente applicare categorie giuridiche inappropriate e/o valide in altri ambiti. Un esempio può servire a chiarire il mio pensiero: poiché rappresenta una peculiarità del pugilato incrociare i guantoni e fare a pugni, ad un allenatore di giovanissimi pugili non potrà mai essere contestato di avere consentito a due ragazzi minorenni di partecipare ad un incontro di boxe in allenamento, se la partecipazione è preceduta da un’adeguata preparazione ed una eguale esperienza. All’opposto, invece, se un professore di matematica organizza o consente che due ragazzi minorenni facciano a pugni, sarà sicuramente responsabile delle conseguenze che ne derivano. L’esempio, da prendere per quel che vale, indica una traccia da seguire nel ragionamento giuridico. Il tema, più ampiamente sviluppato dalla prima relazione sul rischio consentito, pone le basi per riconoscere alle attività scout una decisa peculiarità, che non può rimanere estranea alla valutazione dei comportamenti dell’adulto rispetto ai comportamenti illeciti dei ragazzi o dagli eventi lesivi occorsi agli stessi nelle attività autonome. 6. Le peculiarità del metodo scout.
 Dall’esame dei documenti ufficiali dei movimenti scout italiani (AGESCI, FSE, CNGEI) e da una serie di letture (alcune frasi sono estrapolate da scritti che nel tempo ho letto, meditato e appuntato: mi scuso in partenza se non riesco a citare la fonte) di scritti sullo scautismo si può evincere che il metodo scout fonda su alcuni punti fermi assai rilevanti per comprendere fino in fondo le sue peculiarità e valutarle correttamente al fine di definire i profili di responsabilità penale dell’adulto nelle attività autonome dei ragazzi. Lo scautismo, in un contesto sociale fatto di prevalenza del superfluo e di sfrenato consumismo, valorizza l’essenzialità come valore, educando a scegliere ciò che realmente è utile (e vale). Molte attività educano all’essenzialità (dalle più semplici come preparare lo zaino o il menù, a quelle più complesse come realizzare costruzioni anche significative con pali e 30 cordini, fino a scegliere il servizio utile e non quello che gratifica). In particolare, per quel che ci riguarda, una “intensa e vera vita all’aperto è una continua scuola di essenzialità”. A questa prima considerazione si deve aggiungere la valorizzazione dello spirito di avventura, indispensabile per offrire ai ragazzi/e un modello virtuoso di agire (che spesso si contrappone a quelli consueti come la sopraffazione, il consumismo, lo sterile protagonismo, la strumentalizzazione della persona, la simulazione, l’alienazione, la fuga dalla realtà, l’apparire piuttosto che l’essere). I ragazzi hanno bisogno di vivere l’avventura in modo valido e autentico per essere aiutati a crescere, devono essere stimolati a “saper rischiare sul probabile”, a non temere le novità, al senso del proprio limite. La (strategia dell’) avventura ha una formidabile vocazione educativa, caratterizza la vita scout in modo concreto, perché consente lo sviluppo di conoscenze e abilità per crescere e maturare nella competenza e stimola a “volare in alto” (e vola solo chi osa farlo) per giocare in modo effettivo il “grande gioco della vita”. L’avventura richiede lo sviluppo di tutta una serie di componenti essenziali alla crescita armonica del ragazzo/a: sviluppa il senso positivo della gioia, l’impegno e la competenza, il sacrificio, il senso dell’altro, l’accoglienza (solo per citarne alcuni). Essa richiede, però, uno spirito particolare che non può prescindere da una “dose di spregiudicatezza e di rischio propria del ragazzo”. Il luogo tipico dell’avventura non è la propria casa, sicura e ovattata, ma la vita all’aperto, pienamente vissuta, con competenza responsabilità. E’ orientata verso grandi ideali ed è “una grande risorsa per gli adolescenti”. Lo scautismo ritiene essenziali, proprio in questa prospettiva, alcune attività che consentono lo sviluppo dell’avventura: il campo e le uscite, gli hikes, le routes, le veglie, il deserto, il gioco. E la tenda, il fuoco, la strada hanno una specifica proiezione alla realizzazione di meravigliose avventure. L’avventura, però, non si improvvisa ma si realizza attraverso percorsi definiti e capaci di cogliere e neutralizzare i pericoli prevedibili. Un ulteriore profilo educativo caratteristico dello scautismo riguarda la competenza, sul cui significato e rilievo è serrato il dibattito. Si sostiene correttamente che la competenza abbia un “valore personale e sociale”. Lo scautismo valorizza “l’esercizio di competenze per acquisire la competenza del vivere con e per gli altri”. Il fondatore B.P. sosteneva, infatti, che lo scautismo è proiettato sul servizio perché “non c’è scautismo senza servizio”. E’ stato anche sottolineato che “la competenza è padronanza di conoscenze e abilità che diviene stile di vita, 31 modo di interagire con se stessi e con il mondo”. Il metodo scout consente di sviluppare alcune tecniche tipiche (appunto dello scouting) che attraverso la maturazione di specifiche competenze (dal costruire un tavolo al campo alla realizzazione di un’impresa o di una route) consentono di acquisire valori capacità più ampie e valoriali (come il senso della progettualità, della comunità, dell’essenzialità, della disponibilità). Le tecniche aiutano a risolvere il quotidiano e fanno “interagire mani e testa”, favorendo l’autonomia e la responsabilità, si sviluppano in attività concrete ma hanno un orizzonte educativo più ampio (la topografia e l’orientamento consentono di raggiungere una meta senza perdersi ma, contemporaneamente, educano a “progettare il cammino della propria vita” e ad orientarsi nelle scelte). La competenza è proiettata poi sempre al servizio verso il bene comune ed è, in questa prospettiva, esercizio autentico di cittadinanza attiva. Una ulteriore peculiarità dello scautismo è la autoeducazione, secondo la quale il ragazzo è il principale artefice, anche se non l’unico responsabile, della propria crescita (cf. Patto associativo Agesci). 7. Segue: la fondamentale importanza dell’autonomia riconosciuta ai ragazzi. Tutti questi aspetti educativi (sintetizzati senza alcuna pretesa di completezza, ma solo nella prospettiva di cogliere una specificità utile nella definizione dei profili di responsabilità dell’adulto educatore) hanno una confluenza nel collegato concetto di autonomia del ragazzo, delle sue scelte e di alcune sue attività, nel cui perimetro (soprattutto in questo ultimo segmento) si sviluppano molte dinamiche educative virtuose ma si annidano ovviamente anche alcuni pericoli. In particolare, l’autonomia non è solo un concetto di genere che descrive un ambito educativo da sviluppare per approdare alla partenza, al tempo, cioè, delle scelte o al momento conclusivo dell’esperienza vissuta nel gruppo scout, ma è anche declinabile come una modalità da proporre ai ragazzi minorenni per sviluppare la loro formazione concreta ed attuale. In alcune fasce di età, in particolare, l’autonomia è essenziale ed è collegata ad attività all’aperto o in sede vissute dal piccolo gruppo (la squadriglia) senza la presenza di capi adulti. Lo scautismo senza autonomia di squadriglia non avrebbe alcun senso, sarebbe ridimensionato di una elevata percentuale e non avrebbe quel fascino e quella capacità educativa che gli viene riconosciuta. Insomma, 32 per quel che mi interessa in questo ragionamento, essa rappresenta una peculiarità del metodo scout senza la quale lo stesso non avrebbe valore o ne avrebbe uno decisamente inferiore. Il concetto di autonomia ha un riverbero anche nella individuazione delle attività concrete che compongono lo strumentario dello scautismo. Alcune sono, per definizione e per coerenza metodologica, svolte senza la presenza degli adulti, in piena autonomia da parte dei ragazzi. Rientrano in questo ambito molteplici attività: per essere concreti ne individuo due, tra le tante: quelle poste in essere, nella branca esploratori/guide, dalle squadriglie (piccoli gruppi di ragazzi, monosessuali organizzati verticalmente e diretti da un caposquadriglia) in sede o fuori dalla sede, all’aperto anche con pernottamento; gli hike, realizzati, soprattutto nella branca rover/scolte ma, per i ragazzi più grandi, anche in quella inferiore (E/G) ove i soci sono essenzialmente minorenni. Sono attività dallo spessore educativo elevato, nelle quali i ragazzi vivono l’esperienza senza la presenza degli adulti e sono previste in modo specifico dalle norme che regolano il metodo scout e che costituiscono i riferimenti normativi ai quali i capi devono ispirarsi nell’esercizio del loro mandato educativo. 8. Il valore delle regole specifiche contenute nei regolamenti metodologici interni e degli statuti. I dirigenti di qualsiasi associazione sono vincolati, nello svolgimento delle loro funzioni e dei loro compiti, a due tipi di norme, interconnesse, anche funzionalmente, tra loro: lo Statuto e il regolamento dell’associazione (e più in generale le regole interne o anche i protocolli adottati) e le Leggi dello Stato. I Capi scout, in particolare, sono tenuti ad osservare sia le norme interne e i fondamenti del metodo Scout in esse contenuti sia le leggi vigenti nello Stato italiano (e quando si va all’estero anche in quello che ci accoglie). In particolare, esistono due profili degni di nota: per un verso, si sostiene correttamente che le prime riguardano “il rapporto interno (il rapporto, cioè, che lega gli associati tra loro)”, mentre le seconde riguardano “il rapporto esterno all'associazione (con i genitori dei ragazzi, con i proprietari dei terreni da campo, coi fornitori, con la pubblica amministrazione, con i terzi in genere che eventualmente entrano in contatto attraverso le nostre attività, ecc.)” (U. Ronci, La responsabilità legale del capo, in Organizascout). 33 In una diversa ottica, va anche sottolineato come le norme interne, in mancanza di discipline legislative specifiche contrarie, rappresentino disposizioni di settore vincolanti, alle quali gli adulti devono attenersi e applicare con lo scrupolo tipico dell’educatore che tiene a cuore soprattutto il bene dei ragazzi: la diligenza del capo deve ispirarsi a questo doppio fronte. Il valore delle regole di settore (quelle interne, condivise da tutti i soci e costruite negli anni dal dibattito e dallo sviluppo dello specifico segmento metodologico) è indiscutibile dal momento che esse costituiscono “le norme di disciplina” da seguire nelle attività e la loro applicazione al ragionamento sulla responsabilità dell’adulto è essenziale per individuare i punti di riferimento e le coordinate giuridiche onde poter valutare poi una specifica condotta. Esse dunque non riguardano solo i rapporti interni al gruppo, all’associazione, ma dimensionano i doveri, i poteri, le facoltà e i modelli di comportamento cui far riferimento per stabilire se una data condotta è lecita o illecita. Quando si parla di regole di settore, ci si deve riferire anche a tutte quelle regole che riguardano ambiti specifici con i quali si entra in contatto (codice della strada, regole della montagna ecc.) e che non vanno svalutate, avendo, anch’esse, un ruolo essenziale nella valutazione delle condotte dell’adulto. I regolamenti metodologici, gli statuti sono ovviamente i riferimenti interni principali anche per definire il c.d. rischio consentito. Per comprendere bene i concetti va sottolineato che non è il rischio in sé a definire la liceità o illiceità dell’attività e della condotta dell’adulto responsabile dell’unità di cui fanno parte i ragazzi che la realizzano in autonomia, quanto piuttosto la sua validità educativa (controllata attraverso la coerenza con il metodo scout) e la sua non eccentricità rispetti alle norme giuridiche; sul piano concreto, poi, si deve valutare anche la preparazione dell’attività stessa e dei ragazzi che vi partecipano. Peraltro queste connotazioni declinano, in buona sostanza, nulla di più di ciò che un buon educatore deve sempre fare nell’interesse dei ragazzi, a prescindere dalla realizzazione di eventi lesivi o dannosi, per contribuire alla crescita ed allo sviluppo dei ragazzi allo stesso affidati. Inoltre, prevedono espressamente la realizzazione di talune attività che, per il fatto di svolgersi senza la presenza dell’adulto, hanno una rischiosità intrinseca maggiore, ma ciò nonostante vengono ritenute 34 degne di essere proposte ai ragazzi/e e addirittura essenziali per l’attuazione del metodo scout. Un’attività mal organizzata può produrre un danno educativo che prescinde totalmente da eventi lesivi anche se rappresenta ciò che l’educatore deve evitare. La espressa previsione e la collocazione in un’area di particolare valore educativo conferisce, peraltro, a queste esperienza un carattere tale da farle ritenere essenziali allo scautismo e, quindi, di tale rilevanza da imporre la loro realizzazione. D’altronde, come sempre, il buon senso fa ritenere che il problema non sia l’attività in sé ma piuttosto come essa viene preparata e vissuta. 9. Segue: la declinazione concreta delle modalità in cui ci compendia l’autonomia dei ragazzi/e. Dal regolamento metodologico AGESCI (aggiornato al 2014) si ricavano alcuni elementi indicativi di come viene intesa e declinata l’autonomia dei ragazzi/e nelle attività. Inizierei con la squadriglia che, all’art. 11, viene così definita: La squadriglia è la struttura fondamentale del reparto e offre ai ragazzi e alle ragazze, in età esploratori e guide, un’esperienza primaria di gruppo. È composta da sei - sette ragazzi o ragazze di tutte le età ed è monosessuale. Tale caratteristica di verticalità aiuta gli esploratori e le guide, attraverso il trapasso delle nozioni, a raggiungere maggiore sicurezza in se stessi e ad aprirsi agli altri: ciò grazie al clima di fiducia e allo stimolo alla corresponsabilità, dinamica educativa peculiare di questa piccola comunità. La verticalità all’interno della Squadriglia consente inoltre di offrire a più ragazzi e ragazze la possibilità di vivere l’esperienza di Caposquadriglia. Ogni squadriglia vive una reale autonomia utilizzando materiale, denaro e un angolo proprio; realizza, in spirito d’avventura e con lo stile del gioco, imprese ideate dai ragazzi stessi. La vita di squadriglia prevede oltre alla riunione settimanale frequenti uscite tendenzialmente mensili, se possibile con pernottamento, che offrono occasioni per vivere e sperimentare in modo sistematico l’autonomia. La squadriglia è uno dei luoghi privilegiati in cui ogni E/G può vivere e concretizzare il proprio Sentiero. 35 Un ulteriore elemento indicativo e il successivo art. 13 che delinea il ruolo e la funzione del capo squadriglia: Ogni squadriglia viene animata da un Caposquadriglia scelto dallo Staff di Reparto, sentito il Consiglio Capi, tra gli esploratori e le guide in cammino verso la Tappa della Responsabilità, in base alle esigenze della squadriglia. Tale ruolo è una notevole esperienza di crescita e di responsabilizzazione dei più grandi del reparto……. Il capo squadriglia è il ragazzo/a (tendenzialmente) di circa 15 anni che guida la squadriglia ed è responsabile della stessa. Il successivo art. 16 poi disciplina le uscite e le missioni di squadriglia chiarendone l’importanza con queste parole: Le uscite di squadriglia consentono una progressiva conquista di autonomia e di responsabilità da parte dei ragazzi e delle ragazze. Le uscite di squadriglia con pernottamento sono parte essenziale del metodo scout: la progressiva conquista di autonomia e di responsabilità da parte dei ragazzi e delle ragazze porta a occasioni in cui essi vengono messi alla prova, specie i più grandi, sperimentando sia la capacità di organizzazione, sia le competenze e lo spirito con cui viene vissuto lo scautismo senza la presenza dei capi. Pertanto, le eventuali difficoltà incontrate non giustificano la rinuncia a esse. La missione di squadriglia è un’uscita in cui gli obiettivi e le tecniche per raggiungerli vengono indicati dai capi. Essa costituisce occasione privilegiata per gli E/G di vivere concretamente consentono una progressiva conquista di autonomia e di responsabilità da parte dei ragazzi e delle ragazze. Qualche altro esempio di previsione specifica di attività realizzate senza la presenza dei capi per previsione espressa del regolamento metodologico la ritroviamo nell’art. 25 (sempre del regolamento metodologico AGESCI) che, riferendosi alla branca R/S (composta da ragazzi/e dai 16 ai 19/20 anni) regolamenta l’esperienza dell’hike definendolo come: un momento di avventura irrinunciabile nel percorso in Branca R/S, vissuto dai rover e dalle scolte che da soli partono per una breve route. Esso è un’occasione significativa per apprezzare il dono di un tempo per riflettere con se stessi e pregare individualmente, dominare le proprie paure……………….
Viene vissuto in uno stile di severa essenzialità, sperimentando la dimensione di povertà. L’hike è un prezioso momento di vita interiore, occasione per riflettere sul proprio Punto della strada, per offrirne poi il risultato al confronto con i Capi o con la comunità. 36 Il tipo di hike, la sua durata e la meta da raggiungere sono commisurati al percorso del ragazzo nella sua progressione personale. Particolari esigenze della comunità, delle persone o delle situazioni possono consigliare che tale esperienza venga effettuata a coppie, conservandone lo spirito…… L’esperienza dell’Hike non è, però, prevista solo per i ragazzi più grandi in età R/S (prevalentemente maggiorenni) in quanto l’art. 28 del regolamento AGESCI la indica come un’attività fondamentale anche per i ragazzi più grandi in età E/G (sicuramente minorenni): l’hike viene proposto ai ragazzi e alle ragazze nel cammino tra la tappa della competenza e quella della responsabilità. Da soli o a coppie monosessuate, gli esploratori e le guide potranno così affrontare in un clima di avventura e di contatto stretto con l’ambiente un’occasione che richiede loro responsabilità, autonomia, competenza, silenzio, riflessione e preghiera. L’hike consente di ricapitolare il sentiero percorso, maturare spunti di crescita personali, per la squadriglia e il reparto relativamente alla tappa in cui si è in cammino. Anche se l’hike è vissuto a coppie, deve riservare uno spazio adeguato ai momenti personali. A questo elenco si potrebbe aggiungere il Challenge, previsto dall’art. 27 e declinato come una tipica attività fisica e tecnica che si realizza, solitamente, a coppie. Nel regolamento metodologico delle guide FSE (Federazione scout d’Europa) del 2012 si richiama l’autonomia di squadriglia e si specificano le attività in autonomia che il piccolo gruppo deve realizzare: L’uscita è il momento in cui si mettono in pratica le tecniche e tutto ciò che si è imparato nelle attività; è questa l’occasione per realizzare tutto quello che non è possibile fare all’interno di una sede…… e si deve realizzare almeno due volte in un anno. Può di ogni singola Guida rispettando le condizioni di sicurezza. Questo regolamento ha una specificità perché entra anche nei particolari rispetto alle regole di sicurezza da rispettare nella scelta, ad esempio, del posto, che deve essere: Sicuro, con la possibilità di appoggio a una struttura in caso di emergenza. Idoneo all’attuazione dell’uscita. Conosciuto dalla Capo Squadriglia, dalla Vice e dalla logista che avranno fatto almeno un sopralluogo; anche la Capo Riparto dovrà essere ben informata sul luogo dell’uscita. Ulteriori dettagli cono previsti dallo stesso regolamento per quanto riguarda le modalità di organizzazione dei campi di squadriglia (della 37 durata di più giorni): Deve prevedere soltanto attività scout, quindi coperte da assicurazione. Viene calibrato sulle reali capacità tecniche della Squadriglia. È preparato dalla Capo Squadriglia assieme alla Vice dopo aver sentito il Consiglio di Deve prevedere soltanto attività scout, quindi coperte da assicurazione. Viene calibrato sulle reali capacità tecniche della Squadriglia. È preparato dalla Capo Squadriglia assieme alla Vice dopo aver sentito il Consiglio di Squadriglia. Viene presentato in Consiglio Capi e approvato dalla Capo Riparto. Sono previste anche ulteriori cose: Permesso del proprietario del posto in cui si effettua il campo. Autorizzazioni necessarie per accensione fuochi, abbattimento alberi, ecc. Avviso al comune e ai carabinieri. Informare i genitori su date e luogo del campo. Autorizzazione dei genitori affinché la figlia possa partecipare. In relazione alla scelta dei luoghi si richiede che il luogo dovrà essere: Sicuro, con la possibilità di appoggio a una struttura in caso di emergenza. Idoneo all’attuazione del programma. Conosciuto dalla Capo Squadriglia, dalla Vice e dalla logista che avranno fatto uno o più sopralluoghi. Conosciuto dalla Capo Riparto che vi avrà fatto un sopralluogo assieme alla Capo Squadriglia. Anche dal regolamento degli esploratori dell’FSE (del 2006) si ricava un richiamo forte all’autonomia del piccolo gruppo di ragazzi minori: La vita di Squadriglia sarà tanto più avventura quanto impegnata in attività forti, frequenti e capaci di far sognare. Perché questo accada la Squadriglia: si riunirà in Consiglio almeno una volta ogni due mesi; effettuerà una Riunione ogni settimana; realizzerà uscite, missioni, imprese e, quando possibile, il Campo di Squadriglia. O con ancora maggiore decisione: La Squadriglia è l’unità operante della branca esploratori: è quindi unità autonoma, con le sue riunioni, le sue attività, i suoi posti d'azione, i suoi incarichi: essa esiste per una azione d'insieme. L’autonomia reale della Squadriglia durante tutte le sue attività è un aspetto imprescindibile ed unico della proposta pedagogica del metodo scout. La vita scout di un esploratore è quasi per intero vita di Squadriglia: riunioni, uscite, imprese, missioni, campi, servizio. Questi esempi dimostrano come le specifiche regole di settore prevedano attività autonome svolte dai ragazzi anche minorenni ed anzi le qualifichino come attività essenziali allo sviluppo armonico della personalità, funzionali alla crescita, comunque indispensabili per vivere appieno la proposta scout in modo adeguato. E dimostrano pure come, in taluni casi (ciò accade soprattutto nel regolamento delle guide FSE), vengono anche specificate le regole di condotta da tenere e da richiedere ai ragazzi minori nella organizzazione concreta delle attività. 38 10. I rischi connessi all’autonomia. Per entrare più nello specifico, bisogna anche considerare che l’attività autonoma, senza la presenza dell’adulto, è per definizione più rischiosa anche perché meno controllabile nella fase di realizzazione (che è la fase più esposta). Ciò ovviamente non può significare che essa produce naturalmente situazioni dalle quali possono derivare responsabilità penali. Anzi, normalmente ci troviamo di fronte a rischi assolutamente leciti e completamente e incondizionatamente consentiti. A ciò si deve aggiungere che deve esistere un profilo di rimproverabilità a carico dell’adulto per una azione o omissione capace di integrare il profilo colposo richiesto. La valenza educativa dell’attività autonoma consente di riconoscerla e quindi consentirla, ma non può, però, costituire un alibi per l’adulto rispetto ai doveri di controllo e di vigilanza, che si dovranno declinare ovviamente in modo peculiare rispetto ai normali canoni. In particolare, è sempre compito dell’adulto educatore conoscere i luoghi ove l’attività si svolge e i suoi contenuti onde poter controllare circa la predisposizione di tutto ciò che è neutralizzare i prevedibili rischi. E’ sempre compito dell’adulto controllare l’organizzazione dei piccoli gruppi in modo che sia assicurata competenza e responsabilità. I ragazzi devono, cioè, essere competenti (aver, cioè, seguito specifici percorsi di competenza nei settori coinvolti nell’attività) e dimostrare responsabilità nella gestione dell’attività, soprattutto da parte del capo squadriglia. In questo ambito la prospettiva da considerare è peculiare: nello scautismo, anche un ragazzo di 15 anni può essere definito competente e ritenuto capace di guidare un gruppo di ragazzi più piccoli in un’attività all’aperto anche di più giorni. Ciò che, in un ambito comune può sembrare azzardato, secondo il metodo scout rappresenta una ineguagliabile risorsa educativa da usare sempre e da far sperimentare possibilmente ad ogni ragazzo nel suo percorso di crescita. La competenza e la responsabilità sono il frutto dell’esperienza maturata, della psicologia del singolo ragazzo e delle attività tecniche alle quali ha partecipato. L’essere minorenne non esclude, dunque, una definizione in chiave di competenza e di responsabilità che possa giustificare la sua partecipazione, in qualità di responsabile, all’attività autonoma. Tutte le 39 disposizioni metodologiche scout (di cui si chiede la corretta applicazione) consentono, all’unisono, di stabilire che è proprio quella l’età nella quale si assumono, per definizione metodologica, i ruoli di capo o vice capo squadriglia (responsabili di un gruppo di 6/7 ragazzi più piccoli) dotati di una valenza educativa essenziale alla progressione della crescita del ragazzo/a. Ugualmente, gli hike (attività che si realizzano generalmente da soli o in coppia) hanno una funzione educativa insostituibile, pur se richiedono un particolare impegno da parte degli adulti nella loro organizzazione posta la peculiare rischiosità dell’evento. I fattori di rischio, se conosciuti possono essere facilmente neutralizzati, attraverso una efficiente organizzazione e la scelta di posti tranquilli. E’ compito dell’adulto, poi, sorvegliare sui materiali utilizzati e sul loro stato di manutenzione; cosi come è computo dell’adulto indicare con precisione le cose da non fare (uso di armi, accensione di fuochi in luoghi in cui è vietato ovvero senza l’osservanza della buona tecnica, campeggiare o fare costruzioni in zone a rischio frane o alluvioni). Gli esempi non sono esaustivi e riguardano, in sintesi, la diligenza media del settore, da utilizzare nel doveroso controllo della organizzazione dell’attività autonoma dei ragazzi. La realizzazione di questa condotta consente di escludere ogni ipotesi di responsabilità dell’adulto per tutto ciò che può verificarsi in un’attività realizzata dai soli minori. Ci sarà sempre una rischiosità di fondo, per certi versi connaturata al fatto stesso di andare all’aperto, in montagna, ma essa non genera responsabilità se sono state rispettate le regole di settore (cioè, il metodo e le sue prerogative minime). 11. La prevedibilità delle condotte e il concorso/cooperazione. La responsabilità dell’adulto, poi, non può estendersi alle condotte imprevedibili, secondo la diligenza e la prevedibilità media, poste in essere al di fuori di ogni previsione, di ogni specificità dell’attività che si sta realizzando, ma in modo arbitrario, dai ragazzi. In questi casi, la valutazione deve avere come riferimento anche il grado di responsabilità del ragazzo che svolge il ruolo, ad esempio, di capo squadriglia. Non vale, cioè, l’essere investito del ruolo ma è necessario anche rivestirlo con una particolare competenza e responsabilità che solo il capo di riferimento conosce e valuta. Anche la maturità del ragazzo 40 conta e probabilmente essere capo squadriglia a 15 anni non è la stessa cosa di esserlo a 14. I profili di responsabilità devono essere perimetrati all’interno del ruolo svolto dal capo educatore e non si estendono ai soggetti che con lui collaborano (gli aiuto capo) o che hanno un ruolo di vertice del gruppo (il capo gruppo). La responsabilità penale, infatti, a differenza da quella civile, non può essere oggettiva, dovendo avere connotazioni soggettive puntuali. Ciò implica che risponde chi ha lo specifico dovere di vigilanza e svolge il ruolo effettivo e non tutti i soggetti che con lui collaborano o che hanno la responsabilità legale del gruppo. La responsabilità di equipe, tipica di alcune forme di colpa medica, non può trovare riscontro nel nostro specifico settore caratterizzato da comportamenti individuali essenziali per la buona riuscita della relazione educativa. Naturalmente, l’impostazione ha carattere volutamente generale e sarà riscontrabile nel caso singolo sempre che l’aiuto non abbia ricevuto deleghe espresse o assunto comportamenti collegati causalmente al fatto che genera responsabilità penale. 12. I limiti della responsabilità dell’adulto nelle attività autonome dei ragazzi. Facendo ora qualche considerazione di sintesi, si può affermare come da tutti gli elementi analizzati emerge che far vivere attività autonome, senza la presenza degli adulti, non solo è previsto dalla specifiche regole di settore ma è anche essenziale alla piena realizzazione del metodo scout. Giova ribadire la massima che può ricavarsi dalla lettura dei documenti delle varie associazioni: senza l’autonomia di squadriglia lo scautismo avrebbe una differente collocazione ed una diversa connotazione educativa. L’adulto, però, non può (ovviamente) disinteressarsi delle modalità e dei contenuti delle attività autonome dei ragazzi, conservando un dovere di controllo, connaturato sul piano educativo e naturalmente anche giuridico, al suo ruolo di educatore ed alla relazione che ha con i ragazzi allo stesso affidati. Ovviamente, nei confronti dei minori il dovere è amplificato. La sua collocazione peculiare consente, infatti, di riconoscere un dovere di controllo e vigilanza che si declina in alcuni comportamenti dovuti, che ove realizzati neutralizzano eventuali profili di responsabilità penale 41 colposa e anche dolosa (sempre nella prospettiva connessa al dovere di controllo e vigilanza). Si può tentare una sintesi, senza alcuna pretesa di esaustività: 1. conoscere luoghi, contenuti e materiali che saranno utilizzati dai ragazzi/e; 2. essere consapevole della concreto livello di preparazione tecnica (competenza) e di responsabilità dei ragazzi/e (e soprattutto del capo squadriglia, nelle attività di squadriglia) e dell’adeguatezza rispetto ai contenuti ed alle difficoltà dell’attività che si andrà a realizzare; 3. predisporre e curare la competenza dei propri ragazzi; 4. mappare i rischi prevedibili connessi all’attività e verificare che siano messe in atto tutte le misure atte a prevenirli ed evitarli. Queste piccole, ma fondamentali, cose (peraltro, assolutamente naturali per un educatore che tiene “al bene” dei propri ragazzi) consentono di neutralizzare le proprie responsabilità non solo per i fatti imprevedibili, cioè non rientranti nella previsione dell’homo medio e dell’id quod plerumque accidit, ma anche per i fatti prevedibili se viene realizzato tutto ciò che la tecnica, correttamente applicata, richiede. Non va, infatti, dimenticato che ogni responsabilità giuridica, soprattutto penale, deve fondare su una rimproverabilità oggettiva e soggettiva, da muovere nei confronti dell’agente. Il rimprovero deve essere ancorato a negligenza, imprudenza, imperizia o inosservanza di leggi, discipline o regolamenti, deve cioè avere una connotazione specifica e consistere in una azione od omissione collegata all’evento dannoso o pericoloso e in un coinvolgimento della sfera psicologica nella prospettiva sottolineata. Se un adulto educatore agisce rispettando le norme di settore e quelle giuridiche e mette in pratica i comportamenti virtuosi descritti, soddisfa certamente la condotta legale richiesta e soddisfa soprattutto il dovere di controllo e vigilanza naturalmente dovuti nei confronti di ragazzi minorenni. Il punto di riferimento per il giudice deve essere sempre la norma interna (lo Statuto, il regolamento) e la sua corretta applicazione. Sotto questo profilo, lo sforzo di individuare modelli di comportamento da parte delle strutture associative può aiutare il singolo educatore a regolarsi ad assumere sempre condotte ispirate alla prudenza e diligenza necessarie. La naturale interferenza delle attività con le discipline specifiche dei settori che si vanno a coinvolgere, impone di rispettare le specifiche fonti normative che le regolano. Se si decide, ad esempio, di realizzare una attività in bicicletta, l’educatore dovrà curarsi di verificare che i ragazzi conoscono quelle regole del codice della strada da rispettare. Ugualmente, per quanto riguarda lo smaltimento dei rifiuti, l’accensione dei fuochi (che vanno sempre autorizzati e controllati), le escursioni in 42 alta montagna con difficoltà superiori alla media per le quali vanno sempre rispettate le regole di settore, uguali per tutti coloro che intendono vivere una esperienza simile. 13. Conclusioni. La conclusione e il richiamo alle regole di prudenza e diligenza specifiche non deve spaventare l’adulto impegnato nel servizio educativo, anche perché, in fondo, essa valorizza, sul piano giuridico, ciò che normalmente si fa e ciò che rappresenta lo strumentario tipico di ogni educatore scout nell’approccio alle attività autonome dei ragazzi allo stesso affidati. Deve, però, richiamare al senso di profonda responsabilità che l’educatore si assume nei confronti dei propri ragazzi e dei genitori che li affidano. Penso che il senso profondo della relazione educativa che lega ragazzo e adulto sia sintetizzabile nel “voler bene” ai propri ragazzi, con una fondamentale declinazione nel “volere il bene” degli stessi, puntando a realizzare ciò che lo determina attraverso modalità attuative corrette, ispirate a diligenza e prudenza. In questo perimetro, possono svilupparsi tranquillamente tutti i percorsi educativi utili a realizzare l’avventura e l’autonomia attraverso le quali lo scautismo ha contribuito alla crescita di milioni di ragazzi in tutto il mondo. **** Il terzo intervento affronta la tematica che sicuramente sta a cuore del Club Alpino Italiano e non solo. Argomento del prossimo intervento infatti sono i profili penali dell’accompagnamento in montagna da parte del capo Scout. Analizzeremo le responsabilità sotto il profilo penale che si possono configurare in capo all’accompagnatore capo scout che conduce i suoi ragazzi in montagna. Come abbiamo già ampiamente detto, la frequentazione della montagna implica un’assunzione del rischio che in parte è gestibile in parte no ovvero non ci si può sottrarre e ciò anche in considerazione della connotazione morfologica dell’ambiente montano stesso. 43 L’ACCOMPAGNAMENTO IN MONTAGNA DA PARTE DEL CAPO SCOUT: PROFILI PENALI 
PREMESSE 
Il Club Alpino Italiano, da ormai 150 anni, provvede, per vocazione e istituzionalmente, a diffondere la frequentazione della montagna; ad organizzare iniziative alpinistiche, escursionistiche e speleologiche; a gestire i relativi corsi di addestramento e formare gli istruttori e gli accompagnatori necessari allo svolgimento delle predette attività. Promuove, inoltre, attività scientifiche e didattiche per la conoscenza di ogni aspetto montano ed ogni iniziativa idonea alla sua protezione e valorizzazione. Tale frequentazione deve avvenire con rispetto e consapevolezza. Rispetto sia per quanto attiene gli aspetti naturalistici ed ambientali o verso le popolazioni residenti, sia come corretta modalità di avvicinamento e di rapporto, fatta di prudenza e di umiltà, volte a far cogliere una dimensione in cui ciascuno possa effettivamente esprimere la propria personalità, nella ricerca del silenzio e del sublime o di momenti di condivisione e socializzazione o, ancora, come accade nel mondo degli Scout o nell’Alpinismo Giovanile CAI, in un’ottica di “educazione attraverso l’avventura”. Consapevolezza intesa come saper cogliere le bellezze che rendono unici i paesaggi e l’ambiente montano, ma anche come piena coscienza dei pericoli oggettivamente presenti, e talvolta imprevedibili, che vi si nascondono e che, se da un lato appagano il desiderio di avventura, dall’altro non possono mai essere totalmente eliminati e, quindi, ignorati. Parlare, quindi, di “sicurezza” con riferimento ad attività da svolgere in montagna può, al massimo indicare il traguardo cui tendere nelle modalità di azione, nella scelta di itinerari e materiali, nell’approfondimento delle tecniche, ma sempre considerando un margine di rischio oggettivamente imponderabile. In tale contesto sia il CAI, nei propri ambiti a valenza educativa, sia le Associazioni Scout sono chiamati a confrontarsi con la posizione che vengono ad assumere gli Educatori rispetto agli Educandi quando l’attività si svolge in montagna, individuandone ruolo e funzioni ed i connessi eventuali profili di responsabilità. 44 E non è secondario cercare di inquadrare altrettanto correttamente la posizione degli educandi, in una prospettiva coerente con i valori e le finalità sottese all’attività da svolgere, cui non è certamente estranea la sollecitazione ad una crescente autoresponsabilità.
 2. RUOLO E FUNZIONI DEL CAPO SCOUT 
E’ noto che la meritoria attività del movimento Scout è finalizzata alla educazione dei giovani mediante lo sviluppo delle proprie attitudini fisiche, morali, sociali e spirituali ed il metodo educativo connesso si basa “sull’imparare facendo” attraverso attività all’aria aperta ed in piccoli gruppi – come ben puntualizzato nella relazione del Dott. Colaiocco – e tale attività si svolge spesso, se non prevalentemente, attraverso l’escursionismo ed in ambiente classificabile come montano. Al Capo Scout il gruppo viene affidato dai responsabili delle Associazioni nel momento della nomina e attribuzione della qualifica/incarico e, ad un tempo, dai genitori dei ragazzi e delle ragazze che ne fanno parte. Ora, se pure è innegabile che la finalità principale che le une e gli altri intendono raggiungere mediante tale affidamento sia quella di favorire lo sviluppo fisico, sociale e spirituale dei ragazzi, sollecitandone la personale crescita, quasi un’autoeducazione, altrettanto indubitabile è la circostanza che il Capo Scout assuma, rispetto all’attività da svolgersi in montagna o in ambiente che comunque presenti difficoltà o pericoli, anche il ruolo e le funzione dell’accompagnatore nel senso che di seguito cercherò di puntualizzare. Il che trova conferma nella casistica degli incidenti accaduti durante attività scoutistiche, rispetto ai quali la ricerca di eventuali profili di responsabilità è stata rivolta de plano nei confronti del o dei Capi Scout. Ne discendono due importanti considerazioni: a) che l’essere i Capi Scout operatori di stretto volontariato e mossi da finalità ideali non esclude una possibile responsabilità laddove ne sussistano le condizioni di legge; b) che la formazione dei Capi Scout non può prescindere anche da specifiche fasi rivolte all’acquisizione di conoscenze relative alla montagna, all’apprendimento di tecniche di progressione e assicurazione, di esperienze sul campo. Ed è proprio muovendo da tali considerazioni che il CAI e le Associazioni Scout si incontrano nuovamente nel Convegno odierno, per approfondire insieme temi destinati non solo ad una sempre maggior presa di coscienza da parte dei propri Istruttori e Accompagnatori e dei Capi Scout, ma anche di coloro che vengono “accompagnati”, perché la loro crescita si traduca anche in una proiezione verso l’autoresponsabilità che trovi riscontro, poi, in sede di valutazione comparativa delle condotte in caso di incidente. Il che non significa cercare di deresponsabilizzare chi, invece, deve avere piena contezza dei propri doveri di protezione ed assolverli, quanto piuttosto attribuire all’accompagnato o all’allievo un ruolo da coprotagonista che, fermo il diritto ad essere “protetto”, deve considerarsi ed essere considerato come chiamato, a sua volta, 45 a condotte diligenti e corrette: in tal modo non si avranno un soggetto gravato da ogni e qualsiasi responsabilità ed un altro del tutto passivo e tutelato al di là di ogni ragionevolezza, bensì un Capo scout e di componenti del suo gruppo, onerati ciascuno, pur nella differenziazione dei ruoli, da precisi obblighi la cui violazione avrà una ricaduta sul rapporto di accompagnamento che si viene a costituire e sulle responsabilità che ne possono derivare. Questo perché, se pure è vero che “la responsabilità del volontario è da considerarsi un valore”, la montagna correttamente intesa è quella in cui presenza mentale ed impegno costante siano appannaggio di tutti i suoi frequentatori, quale che sia il ruolo o la funzione ricoperta, in modo che le eventuali responsabilità, in caso di infortunio, vengano accertate nel pieno rispetto delle normative e non già in base a pregiudizi o mediante applicazione di forme di presunzione, talora al di là delle stesse previsioni normative.
 3. LE MODALITÀ DI FREQUENTAZIONE DELLA MONTAGNA
 La possibilità di accedere alle montagne è, almeno sin qui, offerta a tutti e tutti devono essere consapevoli che tale frequentazione implica una assunzione di rischio, in parte gestibile ed in parte oggettivamente ineliminabile. Ciascuno è libero, quindi, di scegliere la propria modalità di frequentazione, che può essere: solitaria ed autonoma, oppure con amici o altri alpinisti, escursionisti o speleologi, o ancora con accompagnatori volontari o con guide alpine (professionisti) oppure, ed è il caso che ci occupa, nell’ambito di Associazioni Scoutistiche i cui gruppi di ragazzi accedono alla montagna affiancati da un Capo Scout. La scelta di andare in montagna in uno, piuttosto che in un altro, dei modi indicati, comporterà una differenziata graduazione del rischio che si intende accettare e che, pur costituendo la imprescindibile costante delle attività in oggetto, risulterà così diversamente distribuito: chi va da solo assume un rischio totale, proprio ed esclusivo, mentre chi decide di procedere accompagnato, e in quanto tale, oltre ad effettuare una scelta prudente, viene anche a trovarsi in una posizione che, in vario modo, come si vedrà fra breve, risulta “garantita” rispetto a possibili eventi dannosi. Il che, a mio avviso, accade anche con riferimento alla figura del Capo Scout. Vediamo insieme per quali motivi. Sappiamo che si definisce “accompagnamento” l’attività umana per cui un soggetto, l’accompagnatore, professionalmente, per spirito associazionistico o per amicizia o cortesia si unisce ad una o più persone, gli accompagnati, accettando espressamente o tacitamente di offrire loro collaborazione e protezione in misura corrispondente a capacità e conoscenze, talora certificate, per consentire o favorire lo svolgimento dell’attività alpinistica, escursionistica e o speleologica. La ragione per cui ci si rivolge ad un accompagnatore, quindi, è quella di diminuire il rischio che si intende assumere, benchè ne perduri una quota variabile, rapportata al livello di affidamento che si determina in ragione del grado di qualificazione dell’accompagnatore e delle capacità dell’accompagnato, investendosi il primo di un potere direttivo cui corrisponde la subordinazione del secondo, con l’ulteriore effetto di dare vita ad una relazione che, a determinate condizioni, può costituire fonte di responsabilità. 46 Mentre nel lessico corrente il concetto di “accompagnamento” è riferibile a molteplici situazioni nelle quali delle persone svolgano attività congiuntamente, perché sussista un accompagnamento in senso giuridico occorre che la relazione tra coloro che vanno in montagna risulti connotata dalla finalità, implicitamente sottesa nel contesto in cui opera il Capo Scout-Educatore, di trasferimento di una quota parte di rischio dall’accompagnato all’accompagnatore. Ne deriva in capo a quest’ultimo l’insorgere di un dovere di protezione, con i relativi obblighi a favore dell’altro; anche nei confronti di quest’ultimo si costituiscono, ad un tempo, un proporzionale affidamento, da parte del Capo Scout, parimenti tutelato, e con obblighi di diligenza e correttezza. Per questo non sarà accompagnatore in senso giuridico l’amico o lo Scout con cui si organizza una uscita per la quale si sia dotati di analoga preparazione ed esperienza; lo stesso deve dirsi per l’accompagnatore qualificato o finanche la guida alpina, ogni qualvolta l’escursione o la salita costituiscano una mera occasione di attività congiunta, ma senza la specifica finalità di integrare i limiti di esperienza, conoscenza e capacità tecniche da parte dell’uno e a favore dell’altro, così da rendere praticabile quel che, altrimenti, non si sarebbe potuto affrontare. Ecco perché il Capo Scout acquista il ruolo e le funzioni di accompagnatore nel senso giuridico sopra esposto, in quanto, nello svolgimento della propria attività educativa, assume anche una parte del rischio dei ragazzi che accompagna in relazione al tipo e livello di “avventura” prescelto.
4. POSIZIONE DEL CAPO SCOUT RISPETTO ALL’AMBITO DEGLI ACCOMPAGNATORI 
Gli accompagnatori possono essere: a) professionali, iscritti ad albi ed operanti, normalmente, per ottenere un corrispettivo a fronte della propria prestazione lavorativa: sono la guida alpina-maestro di alpinismo, l’accompagnatore di media montagna, la guida vulcanologica, la guida speleologica, nonché le altre figure professionali create dalle legislazioni regionali in ambito turistico; b) non professionali o volontari, con l’obbligo assoluto di gratuità della prestazione, a loro volta: b1) qualificati: nel caso degli istruttori ed accompagnatori titolati del CAI; b2) non qualificati: nel caso di chi si presta ad accompagnare per ragioni associazionistiche, di amicizia o di cortesia Il livello graduato di preparazione, competenza ed esperienza di ciascun tipo di accompagnatore, fermo il dovere di protezione che fa capo a tutti, determina un differente livello di affidamento, cioè di aspettative, nell’accompagnato, nel senso che quanto minore risulti tale livello, tanto maggiore sarà il rischio accettato. Il Capo Scout è certamente un accompagnatore volontario ma, in assenza di uno specifico iter di formazione tecnica, riveste sì una qualifica che ne sottende le precedenti esperienze e una comprovata formazione rispetto al ruolo che, proprio per questo gli viene attribuito dall’Associazione, ma non può dirsi “accompagnatore qualificato”. 47 Il che dovrebbe, almeno a livello teorico, determinare una minore aspettativa di protezione sia da parte dei ragazzi (e delle loro famiglie) sia da parte dell’ordinamento.
 5. IL CAPO SCOUT E L’OBBLIGO DI IMPEDIRE EVENTI DANNOSI 
La violazione di una norma penale preveda l’applicazione di una sanzione strettamente personale (art. 27 comma 1 della Costituzione). Le disposizioni penali sono da intendere come di ordine pubblico e sono poste a tutela di beni considerati primari (si pensi alla vita, alla integrità psico-fisica delle persone, alla libertà in tutte le sue forme etc.) per cui non sono ipotizzabili preventive clausole di esonero responsabilità, che risulterebbero nulle ai sensi dell’art. 1229 comma 2 c.c. . Le ipotesi delittuose che possono assumere rilevanza nell’attività dei Capi Scout sono principalmente: - l’omicidio colposo (art. 589 c.p.) - le lesioni personali colpose (art. 590 c.p.) - l’omissione di soccorso (art. 593 c.p.) Si tratta di casi in cui quel che viene normalmente contestato è di non aver impedito l’evento dannoso che, a mente dell’art. 40 comma 2 c.p., si aveva l’obbligo giuridico di impedire, con la conseguenza che lo si è, per equivalenza, cagionato (cd. reato omissivo improprio). Nel caso degli accompagnatori, professionali, come in quello dei volontari, tale obbligo giuridico deriva dalla assunzione della “posizione di garanzia”, con contenuti di protezione correlati all’affidamento che si genera nell’accompagnato23. Molteplici sono le fonti cui riconnettere l’insorgere di una posizione di garanzia intesa come “rivolta a riequilibrare la situazione di inferiorità (in senso lato) di determinati soggetti attraverso l’instaurazione di un rapporto di dipendenza a scopo protettivo”.24 Alle tradizionali fonti dell’obbligo di impedire determinati eventi, vale a dire la legge, penale o extrapenale; il contratto o la propria precedente azione pericolosa, altre ne sono state aggiunte attraverso la teoria del contatto sociale. In realtà vi è generale consenso sul fatto che, anche al di fuori di tali ipotesi, sia possibile individuare molteplici posizioni di garanzia con l’obbligo di impedire determinati eventi, in applicazione di specifiche norme costituzionali, prima fra tutti l’art. 2 che costituisce il cardine del principio solidaristico sociale, riconoscendo diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo che nelle formazioni sociali, ma imponendo, ad un tempo, il rispetto dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
23 Cass. Pen. 24.03.2003 n. 13323 24 Fiandaca e Musco, Diritto Penale 2004 – 565 48 Anche l’art. 32 della Costituzione che tutela il diritto alla salute e, in essa, l’integrità psico-fisica degli individui, rappresenta un riferimento costituzionale dell’obbligo di impedire eventi che tale integrità vedano lesa. Cenno a parte, per completezza, va fatto per l’ipotesi in cui l’accompagnatore volontario dovesse richiedere o percepire un compenso e non il solo rimborso delle spese, che è, invece, consentito: si avrebbe in tal caso esercizio abusivo di una professione (quella di guida alpina), che richiede una speciale abilitazione dello Stato ed è punito ai sensi dell’art. 348 c.p. .
 6. PROFILI DI COLPA DEL CAPO SCOUT
 L’elemento soggettivo cui fare normalmente riferimento nel campo delle responsabilità del Capo Scout è quello della colpa. Perché vi sia colpa deve mancare la volontà dell’evento dannoso e si parla di colpa in senso generico laddove si ravvisino negligenza, oppure imprudenza o imperizia, vale a dire l’inosservanza di regole di condotta che tendono a prevenire il verificarsi di quegli eventi dannosi che le stesse miravano ad impedire. Ciò significa che il Capo Scout per non vedersi ascrivere una “colpa” dovrà osservare: a) Le regole di diligenza, che sono quelle che prevedono le modalità con cui vanno compiute le azioni ed il cui mancato rispetto è altrimenti definito come negligenza, trascuratezza, disattenzione, dimenticanza, svogliatezza. È negligente partire per un’escursione senza avere verificato le condizioni della propria attrezzatura tecnica e di quella dei componenti del gruppo; procedere in testa a questi ultimi senza più curarsi della loro situazione e dell’andamento della salita, posto che qualcuno potrebbe sbagliare percorso ed incorrere in pericoli, oppure avere bisogno di assistenza o consiglio. b) Le regole di prudenza, che sono quelle che vietano di compiere certe azioni o di compierle con certe modalità; l’inosservanza di tale divieto costituisce imprudenza, noncuranza, temerarietà, contrasto con le norme di sicurezza dettate dalla ragione o dall’esperienza. È imprudente iniziare un’escursione in caso di forte maltempo o di previsione di forte maltempo; sostare in luoghi sovrastati da pericoli, accompagnare un numero di partecipanti superiore a quello che consente di prestare a tutti adeguata assistenza. c) Le regole di perizia, che sono quelle che prescrivono l’osservanza di particolari tecniche per il compimento di determinate attività; sono altrimenti definite regole di diligenza tecnica, per significare che, acquisite dalle conoscenze e dalle tecniche alcune regole aggiornate di comportamento, ad esse deve conformarsi chi svolge quella particolare attività. È imperizia, allora, il difetto di impiego di tali nozioni, come pure dell’abilità e della preparazione tecnica richiesta per svolgere certe funzioni. Deve altresì considerarsi l’eventuale profilo di colpa specifica, vale a dire quella connessa alla violazione di leggi, regolamenti, ordini o discipline: in quanto caso ci si trova di fronte a norme destinate a tutti (leggi, regolamenti e discipline) o a 49 particolari soggetti o a singoli (ordini) dettate in funzione preventiva, volte cioè ad evitare che accadano proprio gli eventi dannosi che il loro mancato rispetto rende ragionevolmente probabili. Tali disposizioni, per lo più scritte, esprimono, quindi, un giudizio di prevedibilità, sulla scorta di esperienze e di nozioni acquisite, quanto al fatto che dalla violazione di un certo divieto possa derivare uno specifico evento dannoso: trattandosi di una prevedibilità secondo criteri di normalità e di ragionevolezza, non è detto che, necessariamente, violata la norma, l’evento dannoso si produca, ma è certo che, ove tale evento si producesse, la responsabilità verrebbe immediatamente addossata all’accompagnatore sul quale incomberebbe l’onere di fornire la non facile prova che l’evento dannoso è dipeso da altri fattori.
 7. IL NESSO DI CAUSALITÀ 
Tra la condotta, attiva od omissiva, e l’evento dannoso deve sussistere un nesso di causalità: il che equivale a dire, semplificando, che senza quella condotta o quella omissione non si sarebbe verificato quello specifico evento. In ambito penale è l’art. 40 comma 1 c.p. a prevedere che nessuno possa essere punito “se l’evento dannoso o pericoloso da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione”. In esito a recente sentenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte25 è oggi possibile distinguere nettamente il criterio da adottarsi per la valutazione del nesso di causalità in sede penale rispetto a quella civile. Nello specifico si è precisato che: a) in sede penale possa ritenersi sussistente il nesso di causalità materiale in presenza di un elevato grado di credibilità razionale, che sia prossimo alla certezza; b) in sede civile è sufficiente, invece, che la relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso si attesti sul “più probabile che non”. Tale notevole differenza trova una sua logica, ancor più che nella finalità della tutela approntata, nel differente regime sanzionatorio previsto, per cui, per pronunciare una condanna penale si richiede un livello di probabilità di collegamento tra la condotta e l’evento che sia prossimo alla certezza, ben sapendo che spesso è in gioco la libertà individuale della persona.
 8. LA FONTE DEL DOVERE DI PROTEZIONE CHE INCOMBE SUL CAPO SCOUT
Si è detto chiaramente che il Capo Scout riceve l’incarico e assume il ruolo e la funzione di Educatore con previsione, però, di modalità operative che ne connotano l’attività anche con il costituirsi di un rapporto di accompagnamento rispetto al gruppo affidatogli. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 25 Per tutte Cass. Civ. Sez. Unite 11.01.2008 n. 576 50 La conseguenza è l’insorgenza di una posizione di garanzia e del correlato dovere di protezione, il cui contenuto richiede di essere adeguatamente precisato, tenendo conto che, se da un lato vi è piena adesione dei partecipanti e delle loro famiglie al metodo educativo scautistico e, quindi, un consenso rispetto alle attività connesse e alle loro modalità di attuazione, dall’altro vi sarà il confronto con la tutela che l’ordinamento intende assicurare, in via prioritaria, alla integrità psicofisica di coloro che vengono accompagnati, così come confermato dalla casistica giurisprudenziale formatasi in tema di incidenti in ambito scout, esaustivamente citata nella relazione del Dott. Colaiocco. Si tratta, allora, di prendere le mosse dalla fonte del dovere di protezione riferibile al Capo Scout, per meglio e correttamente individuarne i contenuti e, conseguentemente, la condotta dallo stesso esigibile. Operandosi nell’ambito del volontariato, deve escludersi che la fonte normativa dei doveri del Capo Scout sia rappresentata da un contratto (fonte, invece, tipica del rapporto tra la Guida Alpina ed il cliente), così come non vi sono leggi penali o extrapenali che impongano, a priori, al Capo Scout di impedire determinati eventi. Quel che in realtà accade è che interviene una assunzione spontanea, in assenza di un obbligo quale che sia, di una posizione di garanzia che, parallelamente, invogli il componente del gruppo ad affrontare determinate attività assumendo rischi che, altrimenti e da solo, non avrebbe inteso correre: ed è su questa premessa che trova tutela l’affidamento che viene in tal modo riposto nel Capo Scout. Il che trova conferma nel Dizionario Scout che alla voce “volontariato” 26 precisa: “gli adulti che aderiscono allo scautismo e ricoprono ruoli di responsabilità educativa lo fanno volontariamente, in piena libertà e senza alcuna retribuzione”. Va detto, però, che recente giurisprudenza in tema di accompagnamento di minori 27 ha ricondotto il dovere di protezione alla teoria del c.d. contatto sociale, tale intendendosi quale fonte di obbligazioni ai sensi dell’art. 1173 c.c., nella parte in cui richiama, a tal fine, “ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico”. Tale orientamento, che prescinde aprioristicamente dalla obbligatoria gratuità dell’attività prestata dal volontario28, non è , a mio avviso, condivisibile e rischia di falsare la chiave interpretativa di eventuali incidenti, con l’applicazione dei canoni della contrattualità, in un contesto che non solo non la prevede ma che, addirittura, la esclude. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 26 Dizionario Scout Illustrato di V. Pranzini e N. Pranzini – 2007 – pagg. 273, 274 27 Tribunale Civile di Venezia n. 2580 del 17.10.2011 28 E’ quanto prevedono: la Legge Quadro sul volontariato n. 266/1991, art. 2 c. 1 per cui attività di volontariato “è quella prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, tramite l’organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro, anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà”; lo Statuto del CAI che all’art. 35 prevede la gratuità delle cariche centrali e territoriali, mentre l’art.70 del Reg. Gen. CAI, al comma 3 recita: “la gratuità delle cariche sociali esclude esplicitamente l’attribuzione e l’erogazione al socio, al coniuge o convivente, ai parenti entro il secondo grado di qualsiasi tipo di consenso comunque configurato” 51 L’applicabilità della teoria del contatto sociale all’accompagnamento volontario è stato oggetto di qualificati approfondimenti dottrinali29 che non ne hanno, però, esclusa l’ammissibilità. Ad avviso di questo relatore, invece, non può considerarsi coerente con il sistema normativo vigente l’inquadramento in una fattispecie di contatto sociale quella in cui il soggetto garante sia un volontario e come tale, non solo esente dall’obbligo di prestazione (l’accompagnatore potrebbe anche non presentarsi il giorno fissato per l’escursione e nessuno potrebbe contestargli un inadempimento, né imputargli alcunchè ove mai l’escursione intervenisse ugualmente 30 ), ma altresì è obbligatoriamente tenuto alla gratuità circa l’attività svolta, sotto pena di sanzione penale. Abbiamo già detto che la categoria del contatto sociale viene considerata fonte di obbligazioni, in aggiunta al contratto o al fatto illecito, ai sensi dell’art. 1173 c.c.. Ora: le obbligazioni hanno per oggetto una prestazione la cui peculiarità, ai sensi dell’art. 1174 c.c. è che “deve essere suscettibile di valutazione economica e deve corrispondere ad un interesse, anche non patrimoniale, del creditore” e, a tale riguardo, pur prendendo atto che la giurisprudenza ha inteso l’espressione “suscettibile di valutazione economica” ammettendo che le parti potrebbero considerare tale anche una prestazione oggettivamente non patrimoniale, non può negarsi che in nessun caso l’attività svolta da un volontario può assimilarsi al concetto di prestazione, proprio perché l’obbligo di gratuità e le ragioni sottese all’attività stessa escludono a priori la possibilità di connotarla con una “patrimonialità”. Se, poi, si considera che il modello del “contatto sociale” trae origine dagli approfondimenti in tema di rapporti contrattuali di fatto, per cui si sarebbe giunti a tale figura nei casi in cui un contatto fa sorgere vere e proprie “obbligazioni contrattuali in assenza di contratto”31, non può trascurarsi la circostanza che anche la nozione di contratto postula l’esistenza di un “rapporto giuridico patrimoniale” (art. 1321 c.c.), ancora una volta rinviando a quella “patrimonialità” della prestazione che abbiamo visto essere necessariamente estranea a qualsiasi rapporto instaurato da un volontario. E poiché è noto che “il requisito della patrimonialità della prestazione vale a delimitare l’ambito di applicazione delle norme sull’obbligazione, le quali non si applicano quando manca quel requisito, ossia quando si è in presenza non di obbligazioni, bensì di obblighi” 32, l’assenza di “patrimonialità” relativamente agli obblighi assunti dal volontario non consente di inquadrare il rapporto cui lo stesso partecipa nel novero delle obbligazioni. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
29 L. Lenti - Alpinismo ed escursionismo in montagna - “la montagna” – Torino 2013, 405 sottolinea la non irrilevanza, in argomento della gratuità, nel senso che la responsabilità, per tale motivo, dovrebbe essere valutata con minor rigore. 30 Cass. Pen. 04.07.2007 n. 25527 31 Cass. Civ. 22.01.1999 n. 589 32 Galgano, Diritto Civile e Commerciale, 2004, II,1; 7; v. anche Bianca, Diritto Civile, 1990, L’obbligazione, 82: “Col richiedere il requisito della patrimonialità della prestazione il codice non ha per altro sancito un divieto ma ha delimitato la figura dell’obbligazione”; Cian Trabucchi, Commentario breve al codice civile 2007, 1211. 52 Non risulta, quindi, applicabile, in tal caso, la categoria del contatto sociale come fonte di obbligazione, poiché quel “contatto”, pur suscettibile di generare obblighi, non può dare vita ad una obbligazione in senso stretto. La conclusione è, quindi, nel senso che ogniqualvolta l’accompagnamento sia svolto da un volontario, i relativi doveri di protezione non potranno ricondursi ad una ipotesi di contatto sociale, bensì alla già accennata assunzione spontanea, in ambito associativo, di un ruolo e di una funzione cui sono ricollegati profili di responsabilità, dei quali il movimento scautistico è pienamente consapevole, così da definire “Capo Campo” “il responsabile di ogni tipo di campo che viene organizzato nell’ambito scout” e “Capo Gruppo” “il responsabile del gruppo organismo fondamentale per l’attuazione del metodo scout” 33
 LA CONDOTTA ESIGIBILE DAL CAPO SCOUT
 Sia pure estraneo all’ambito della contrattualità, il rapporto che si viene a costituire tra il Capo scout e i componenti del gruppo affidatogli, comporta in ogni caso precisi obblighi di informazione, di avviso, custodia, cooperazione e conservazione, quali espressione della solidarietà e della buona fede cui la sua condotta deve ispirarsi. L’informazione e gli avvisi dovranno essere adeguati, dedicando, specie quando ci si rivolge a dei neofiti, un tempo sufficiente a far acquisire le nozioni e capacità necessarie, presupposto indefettibile perché possa ipotizzarsi una reciprocità tra comportamenti da tenersi dall’una e dall’altra parte. Il Capo Scout dovrà completare l’informazione facendo, altresì presente: a) che frequentare la montagna comporta dei rischi oggettivi, legati all’ambiente naturale e alle difficoltà, graduate, dei percorsi prescelti; b) che tali rischi non possono essere eliminati neppure dal più attento, prudente ed esperto degli accompagnatori; c) che alla posizione di garanzia da lui assunta, corrispondono, nei componenti del gruppo, un dovere di subordinazione/soggezione ed analoghi doveri di protezione; d) che i componenti del gruppo saranno tenuti alle medesime regole di diligenza e correttezza cui è tenuto il Capo Scout 34; e) che qualora l’evento dannoso fosse riconducibile esclusivamente alla violazione da parte di un componente del gruppo delle predette regole di diligenza e correttezza, si avrebbe l’interruzione del nesso di causalità35 e nessun addebito potrebbe formularsi a carico del capo Scout.
 !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
 33 Dizionario Scout – cit. pag. 56 34E’ quanto si ricava da Cass. Civ. Sez. Unite 21.11.2011 n. 24406 : “Il comportamento omissivo del danneggiato rilevante non è solo quello tenuto in violazione di una norma di legge, ma anche più genericamente in violazione delle regole di diligenza e correttezza. Ciò comporta che, ai fini di un concorso del fatto colposo del danneggiato ex art. 1227 primo comma c.c., sussiste il comportamento omissivo colposo del danneggiato ogni qual volta tale inerzia contraria a diligenza, a prescindere dalla violazione di un obbligo giuridico di attivarsi, abbia concorso a produrre l’evento lesivo in suo danno”. 35 Cass. Civ. n. 28811/2008 53 In tal modo risulterà correttamente soddisfatto l’obbligo di informazione e si otterrà l’ulteriore effetto di potersi rapportare con degli accompagnati consapevoli, in quanto informati ed avvisati, il che consentirebbe, ove ritenuto opportuno, di richiedere il rilascio di una conforme “attestazione di consapevolezza e di intervenuto avviso ed informazione”, da rilasciarsi anche in modo progressivo, mano a mano che le informazioni e le competenze vengono effettivamente acquisite. Naturalmente l’informazione, gli avvisi e le conoscenze devono essere effettivamente forniti, esposti in modo adeguato e comprensibile e l’attestazione deve confermare qualcosa di realmente accaduto e non essere il frutto della mera sottoscrizione di un foglio.
10. LA CONDOTTA DEL COMPONENTE DEL GRUPPO
 Tutto il metodo educativo scout è finalizzato alla progressione personale dei giovani attraverso un cammino in cui Lupetti e Coccinelle, Rover e Scolte, Esploratori e Guide vengono avviati all’autonomia e al senso di responsabilità, attraverso attività di formazione che possono riassumersi nell’espressione omnicomprensiva di “Avventura”. In tale processo formativo del carattere, si ricorre spesso al concetto di autoeducazione intesa come partecipazione attiva dei ragazzi, sempre più consapevole e critica. Su tali premesse non può sussistere dubbio alcuno che il componente del gruppo guidato dal Capo Scout, nella prospettiva dell’accompagnamento, sia un coprotagonista dell’esperienza escursionistica condivisa e non già una sorta di passiva appendice di un accompagnatore chiamato a rispondere in ogni caso. Ciò comporta che quegli stessi obblighi di informazione e protezione che gravano sul Capo Scout, gravino anche sui ragazzi o sulle ragazze del gruppo, che sono tenuti a fornire una adeguata e corretta informazione circa le proprie conoscenze, esperienze precedenti, condizioni psicofisiche ed eventuali criticità, perché sarà su tali basi che saranno possibili corrette valutazioni e progettualità da parte del Capo Scout. Potrebbe, quindi, sostenersi che, pur in presenza di un rapporto di accompagnamento, non viene meno il principio di autoresponsabilità ricollegabile al già richiamato dovere di solidarietà sociale previsto dall’art. 2 della Costituzione, correttamente inteso come “strumento per indurre anche gli eventuali danneggiati a contribuire affinchè un pregiudizio non si verifichi ed è finalizzato ad ottenere una migliore ripartizione dei compiti tra danneggiante e vittima” 36. Si aggiunga, infine, che la sussistenza di una condotta colposa ascrivibile all’accompagnato e la sua ricaduta nella valutazione complessiva dell’illecito è stata considerata37, rilevabile d’ufficio e non solo su eccezione di parte: il che significa che se il Giudice, dalla ricostruzione dei fatti, dovesse rilevare negligenza o !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
36 Raffaele Plenteda in Altalex 13.12.2011 commento a Cass. Civ. n. 25239/2011 37 E’ quanto si ricava da: Cass. Civ. 25.09.2008 n. 24080; Cass. Civ. 23.01.2006 n. 1213. Se pure il profilo di responsabilità esaminato nel presente intervento attenga l’ambito penale, il principio richiamato assume rilevanza per la sempre possibile proposizione dell’azione civile risarcitoria nel processo penale. 54 imprudenze o, comunque, violazioni, da parte dell’accompagnato, dovrà tenerne conto in ogni caso. In conclusione si può affermare che anche in capo all’accompagnato sussistono precisi obblighi di diligenza e correttezza la cui violazione può costituire fonte di responsabilità concorrente con quella del Capo Scout, quando non addirittura esclusiva.38
 11. UNA DECISIONE SIGNIFICATIVA 
Il Tribunale Penale di Bergamo è stato chiamato a giudicare il caso di un volontario che, operando in collaborazione con un’associazione dilettantistica sportiva che si occupava di disabili visivi, era stato tratto a giudizio con una imputazione di omicidio colposo, perchè “nel corso di un’escursione ………….., accompagnando il non vedente X, nel percorrere il sentiero Y in un tratto di discesa pericoloso – attesa la pendenza nonché la presenza di sassi, di un dislivello e di un burrone, ometteva di fornire al non vedente indicazioni chiare e precise circa la strada da percorrere, di segnalargli le difficoltà del percorso, nonché di fargli superare in sicurezza gli ostacoli rappresentati dai sassi e dal dislivello, così che X perdeva l’equilibrio e la presa sulla parte posteriore dello zaino dell’accompagnatore scivolando al di sotto della staccionata posta a margine del percorso e finendo nel dirupo sottostante, in tal modo riportando le gravissime lesioni che ne determinavano il decesso”. Con la sentenza n. 723 del 12.06.2013 (Est. Dott. Battista Palestra), il giudicante ha escluso la penale responsabilità dell’imputato con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, con riferimento alla mancanza dell’elemento soggettivo della colpa. Quel che rileva ai fini della presente relazione è l’iter motivazionale della decisione, che offre positivi riscontri a quanto sin qui esposto. La stretta pertinenza con il tema trattato è confermata dalla circostanza che l’imputato era un volontario, operante in ambito associazionistico, il quale, essendosi reso spontaneamente disponibile ad accompagnare un soggetto non vedente lungo un sentiero escursionistico, aveva assunto la relativa posizione di garanzia con quanto ad essa collegato. Il Giudice, mostrando esperienza di montagna e competenza puntuale in tema di accompagnamento, ha articolato la decisione: a) muovendo da fondamentali e condivisibili premesse: - “La “disgrazia” viene rigettata come ipotesi che non rientra nel calcolo ordinario delle probabilità: e questo rende comprensibilissimo l’atteggiamento psicologico – omissis – volto ad esorcizzare “la probabilità disgrazia” e che trova conforto – omissis – nell’idea e nella convinzione che l’evento si riconduca (non – possa – che – ricondursi) a colpa di qualcuno: è un atteggiamento più che comprensibile che giustifica a priori anche le situazioni nelle quali l’atteggiamento della vittima vira da una iniziale condivisione della “fatalità” dell’accaduto verso la ricerca di un !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 38 Cass. Pen. 26.05.1999 n. 8006 55 “responsabile”, come circostanza che in qualche modo aiuta a farsi una ragione del dolore e del lutto”. - “Occorre affermare con chiarezza che il fatto che l’attività di accompagnamento in montagna … si iscriva in un contesto assolutamente volontaristico e – senza tema di smentite – sicuramente benemerito, e che la vittima beneficiasse riconoscente di quel impegno, non potrebbe togliere nulla alla eventuale responsabilità a titolo di imprudenza o di negligenza (con la vita umana non sono possibili leggerezze!) e l’accertamento in concreto di una situazione di colpa non potrebbe essere impedito dalla considerazione – che pure ha un suo fondamento psicologico – che, in questo modo, verrebbe “scoraggiata” la prosecuzione di una attività come quella svolta da X e dagli altri volontari dell’associazione”. - Che “deve essere accertata una responsabilità non assistita da una qualunque presunzione sfavorevole di tipo civilistico (ed anzi dovendosi contrastare una presunzione di non colpevolezza) e che la invocata “posizione di garanzia” non può essere confusa con qualcosa che assomigli ad una responsabilità di tipo obiettivo per il solo fatto che si verifichi l’evento dannoso la cui prevenzione risultava, appunto, affidata al titolare della posizione”. b) Ricostruendo la posizione del soggetto accompagnato, il suo livello di esperienza e le connesse consapevolezze, sintetizzabili nel fatto che l’accompagnato, prima della patologia che ne aveva minato la vista, era stato “escursionista di lungo corso e di grande esperienza” e che, nonostante la perdita di un organo che chiunque considererebbe essenziale per una attività come quella esaminata, “non aveva fatto passi indietro, affrontando anzi situazioni sicuramente più complesse come evidenziate dal suo carnet di escursioni”. c) Descrivendo l’esito del sopralluogo e delle verifiche del materiale fotografico precisando che “il percorso si sottolinea già dal punto di vista della lunghezza e del dislivello, ma presenta un impegno ancora più marcato per ciò che riguarda il terreno, non equiparabile ad una comoda mulattiera …. Ma con numerosi tratti ripidi e caratterizzato da continui ed importanti scoscendimenti e sconnessioni, praticamente fin dal suo inizio”. d) Inquadrando concettualmente l’accompagnamento volontaristico in montagna, anche nell’ottica della fonte normativa di una possibile responsabilità, osservando che “non vi sono parametri normativi per la individuazione di una “competenza minima” di chi si presti ad accompagnare volontaristicamente qualcuno in media montagna” per cui “ogni eventuale défaillance …. deve essere rapportata caso per caso ai criteri ordinari della prudenza e della diligenza” e concludendo “che non vi sono vincoli normativi di nessun genere diversi dal principio del “neminem laedere””. e) Analizzando gli standard di condotta esigibili, pur premettendo che “non vi sono indicazioni normative sull’accompagnamento dei ciechi in montagna” e 56 confrontando le concrete modalità utilizzate dall’accompagnatore con quelle normalmente idonee a garantire una progressione in sicurezza nello specifico caso. f) Ricostruendo, per quanto possibile alla luce delle testimonianze, le condotte dei soggetti coinvolti. g) Infine concludendo per l’assenza di prova che la caduta di X fosse da ascrivere ad un comportamento colposo dell’imputato e, che non vi era stata da parte di quest’ultimo una omissione di prudenza e diligenza doverosamente – e con giudizio ex ante – a lui richiedibili. Si tratta di una motivazione totalmente condivisibile sia per quanto attiene le premesse, sia per la progressione dei temi di indagine e la scelta di questi ultimi. In particolare trova conferma la priorità della tutela della vita e della integrità psicofisica delle persone rispetto al pur lodevole volontariato, al quale, però, viene assicurato, mediante una analisi corretta e puntuale dei contesti e delle situazioni oggettive e soggettive, senza forzature delle norme vigenti, ed in particolare di quelle afferenti l’imprescindibilità dell’elemento soggettivo della colpa, non indulgendo a favore di facili scorciatoie suggerite da presunzioni di derivazione civilistica, a connotazione contrattuale, o di sostanziali oggettivazioni della responsabilità derivante dalla posizione di garanzia.
12. CONCLUSIONI 
Incontri come quello odierno hanno il grande merito di portare all’attenzione, ad un tempo, del mondo giuridico e di quello del volontariato tematiche che, correttamente affrontate e sviluppate, non potranno che assicurare un sempre maggiore rispetto dei soggetti interessati dall’accompagnamento in montagna, e degli ideali del volontariato, attraverso la corretta applicazione delle disposizioni che regolano l’accertamento della responsabilità penale. L’auspicio è che le riflessioni e gli spunti emersi in questa occasione possano costituire un utile riferimento per tutti coloro che vorranno dedicare a questa materia ulteriore e più specifica attenzione. In ogni caso senza dimenticare un prezioso messaggio di Baden Powel 39 “Guardate al lato bello delle cose e non al lato brutto. Ma il vero modo di essere felici è quello di procurare la felicità agli altri”. *** Anche il CAI condivide quanto sinora detto dai precedenti relatori ovvero richiama ad una maggiore diligenza e ad una maggiore cautela da parte degli accompagnatori e quindi per quanto in questa sede rileva, da parte dei capi scout. Se prima abbiamo trattato il tema del principio del rischio consentito, l’Avv. Torti ha richiamato un altro importante principio in questo ambito: il principio
 !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
 39 Messaggio di Baden – Powel agli esploratori, pubblicato postumo in Dizionario Scout cit. – pag. 171 57 dell’affidamento ovvero tutti gli accompagnatori e i capi scout devono avere la consapevolezza che in loro ripongono fiducia tutti gli accompagnati e tutti gli allievi. Il quarto intervento invece affronterà in modo più ampio il concetto di rischio e di responsabilità che è insito nella frequentazione dell’ambiente montano.
58 MONTAGNA: EDUCAZIONE ALLA RESPONSABILITÀ E ALLA SOLIDARIETÀ
 Giovanni Maria Flick Grazie, sarò brevissimo; tranquillizzatevi. Accetto volentieri l’invito, non tanto per ragioni familiari, ma perché sentir parlare di questo tema mi ha ricordato un periodo passato in cui andavo in montagna e mi occupavo del tema della responsabilità. Ho partecipato alla nascita e alle prime iniziative del discorso – nuovo, all’epoca in cui iniziammo ad approfondirlo – su “rischio e responsabilità in montagna”. Poi ho dovuto lasciare questo tema, per occuparmi di altre salite molto più difficili e meno piacevoli di quelle di montagna. Per ironia della sorte, proprio a Courmayeur, dopo varie stagioni in cui andavo per montagne, mi sono rotto il malleolo – scivolando su una lastra di ghiaccio sulla strada asfaltata, in periodo invernale – quando ero già da molto tempo dall’altra parte della barricata. Ho voluto intervenire soprattutto perché ho sentito aleggiare nei discorsi di questa mattina – e credo valga la pena di sottolinearla – l’importanza di alcune indicazioni costituzionali che sono fondamentali per il tema che avete trattato. Voi sapete certamente che la nostra Costituzione contiene le tavole della legge della nostra convivenza civile e sociale. La nostra Costituzione è chiamata “presbite” perché la si criticava per non aver visto alcuni problemi esistenti al momento della sua nascita; però si è riconosciuto poi che questa presbiopia la rendeva capace di guardare lontano: e ciò vale anche in materie come la montagna e la responsabilità. Tanto è vero che aprendo la Costituzione si trovano alcune indicazioni proprio su quello di cui voi avete discusso, e si conferma una volta di più che quando si parla tanto – come oggi – di riscrivere la Costituzione, bisognerebbe rileggerla, prima di riscriverla. Qualcuno dovrebbe addirittura leggerla. Per venire al nostro tema, i principi costituzionali richiamati in causa dalla vostra discussione di stamani sono il tema dell’ambiente e il tema della responsabilità: “Montagna, ambiente, scautismo, responsabilità”. Cominciando da questo secondo tema, rapidamente, a me sembra che lo scautismo e le sue strutture rappresentino una formazione intermedia di volontariato essenziale ai sensi dell’art. 2 della Costituzione: la norma che prevede che l’uomo e la donna sviluppano la loro personalità nelle formazioni sociali intermedie. Le formazioni sociali intermedie sono importanti per l’affermazione di quei diritti inviolabili che caratterizzano la persona (art. 2), ma che si accompagnano a doveri inderogabili – come dice la norma – di solidarietà politica, economica e sociale. Troppo spesso noi ci ricordiamo solo dei diritti e non ci ricordiamo dei doveri, che sono l’altra faccia dei diritti. Perciò a me sembra che l’educazione alla responsabilità – una responsabilità di tutti, sia di colui che educa, sia di colui che è educato, sia dello scout più anziano, sia dello 59 scout giovane – sia una componente essenziale dello scautismo come formazione sociale. Mi pare obiettivo primario dello scautismo e suo DNA proprio l’educazione alla responsabilità, sia dell’adulto che si occupa di scautismo, sia del giovane che gli si affida. Siamo di fronte a una situazione e ad un contesto di volontariato – tecnicamente lo chiamiamo terzo settore – che è quanto mai importante difendere e riaffermare: soprattutto oggi, in un momento in cui la cronaca di questi giorni ci mostra episodi abbastanza ripugnanti di sfruttamento del volontariato e del terzo settore. Basta leggere i giornali per capire che il terzo settore e il volontariato – che tante occasioni e aperture possono offrire, soprattutto ai giovani, che tanto sono importanti in ambiti come quelli dell’educazione giovanile, dell’intervento in carcere, dei beni culturali, e potrei continuare per parecchio tempo – in questo momento rischiano di andare in crisi. V’è il rischio che si faccia di ogni erba un fascio. É importante meditare sul tema della responsabilità, proprio per reagire all’ondata di depressione che monta, vedendo che anche il volontariato è stato sporcato da chi ad esempio si augurava un anno con molti immigrati e con molti rom, per poterne trarne più profitto illecitamente, attraverso la corruzione. In questo contesto, al di là del tecnicismo, di tutte le tecnicalità importantissime per vedere come poi si articoli questo discorso in concreto, credo sia essenziale per lo scautismo un discorso di responsabilità che nasce dalla fiducia, dalla consapevolezza e quindi da una formazione adeguata: una formazione di se stessi, dei ragazzi che ci vengono affidati, che vi vengono affidati, delle famiglie di quei ragazzi. Consapevolezza del rischio vuol dire far capire al ragazzo – in relazione alla sua adeguatezza, alla sua capacità, ai suoi limiti – e alla famiglia del ragazzo, che cosa vuol dire rischio; e vuol dire prima di tutto capirlo noi. Nel dna dello scautismo vi è innanzitutto l’educazione alla responsabilità di chi educa e di chi è educato; l’educazione alla solidarietà nelle situazioni difficili; l’educazione alla fiducia e all’affidamento, che è premessa della responsabilità; l’educazione alla capacità di sapere essere in quel momento un capo, o di prepararsi a divenirlo per i giovani che vi sono affidati; l’educazione a saper vedere il pericolo e a saperlo evitare, anche con un po’ di umiltà; l’educazione alla formazione e preparazione e alla consapevolezza dei propri limiti. Ricordo quello che diceva l’amico Torti sulle ingenuità della montagna, come quella di legarsi in corda senza esserne capaci. Legarsi è l’espressione più bella della solidarietà e dell’aiuto reciproco, ma può essere la bischerata peggiore quando ci si lega in troppi o quando alcuni di quelli che si legano non sanno come reagire se per caso uno di essi scivola, come ho sperimentato anch’io ai tempi in cui andavo in montagna. L’educazione alla responsabilità è essenziale soprattutto in ambienti e in contesti particolari, difficili, come la montagna. E qui passiamo al secondo valore 60 costituzionale che oggi voi avete evocato, il valore dell’ambiente, del patrimonio ambientale. L’art. 9 Cost., colloca tra i principi fondamentali il rispetto, la tutela e la valorizzazione sia dei beni culturali (il nostro passato), sia di quello che chiama “paesaggio” e in realtà è l’ambiente, il territorio, il rapporto della persona con la realtà che la circonda (il nostro presente e il futuro nostro e dei nostri figli). L’amore della montagna si traduce nel rispetto dell’ambiente, richiede di contrastare con ogni mezzo il degrado della montagna, si propone di evitare un turismo non più della responsabilità, ma dello sfruttamento economico della montagna, della eliminazione di ogni ostacolo. Quest’ultima prospettiva – di asservimento della montagna alla logica dello sfruttamento e del profitto ad ogni costo – è quanto di peggio ma quanto di più comune. Essa si diffonde sempre più; basta pensare alle nostre stazioni sciistiche d’inverno ed al fatto che adesso questo discorso comincia a svilupparsi purtroppo anche d’estate. L’educazione alla montagna, a salire, a faticare, mi pare non una retorica sorpassata, ma una componente essenziale dell’educazione alla responsabilità e al rischio consapevole. La montagna è una grande scuola. Ce ne siamo dimenticati; la distruzione del territorio, il suo sfruttamento economico, il momento solo ludico, la distruzione dei boschi – di cui vediamo le conseguenze nella disgregazione del nostro territorio nazionale – ci ricordano che bisogna ricominciare a salire. Naturalmente bisogna ricominciare a salire con consapevolezza dei propri limiti, con umiltà e con quei discorsi che avete fatto stamattina; ma ricominciare. In un momento di depressione e di pessimismo come questo, è importante ritornare a pensare allo scautismo come una delle forme di attuazione dell’art. 2 Cost. e al rispetto della montagna come una forma di attuazione dell’art. 9 Cost. Grazie e buon lavoro. 61 MONTAGNA: RISCHIO E RESPONSABILITÀ
 Caterina Flick La Fondazione Courmayeur Mont Blanc40 Vorrei innanzitutto portare il saluto della Fondazione Courmayeur e il saluto di Waldemaro Flick, Vice Presidente dell’Osservatorio sul Sistema montagna “Laurent Ferretti”. La Fondazione Courmayeur Mont Blanc, istituita nel 1988 con Legge Regionale della Valle d’Aosta, è nata dalla volontà congiunta della Regione Autonoma Valle d’Aosta, del Comune di Courmayeur, del Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale e del Censis. Dall’agosto 1993 la Fondazione ha dato vita a un Congresso annuale sulla montagna, “Montagna, Rischio e Responsabilità”, che da subito ha fatto emergere, durante la prima ricognizione generale dei problemi, due temi centrali nel parlare di montagna e di rischio e responsabilità: l’informazione e il dialogo. L’informazione come essenza di una cultura della trasparenza, della solidarietà e del rapporto che esiste tra l’uomo e l’ambiente. Il dialogo che è assolutamente necessario nel rapporto tra il teorico e il pratico, tra colui che vive il rischio sul terreno e l’uomo di legge che lo vede a posteriori a tavolino. Chi va in montagna conosce i problemi, ma poi il teorico, il giurista, quando accade un incidente o quando si deve fare prevenzione deve riportare in categorie giuridiche ciò che avviene in un ambiente di difficile “incasellamento”. Negli oltre venti anni trascorsi la Fondazione ha sempre portato avanti la cultura del dialogo e dell’informazione, attraverso convegni annuali e con la raccolta di tutta la documentazione elaborata nel corso degli anni e pubblicata nella collana Rischio e responsabilità dei quaderni della Fondazione. La raccolta e il confronto di dati, esperienze, leggi, giurisprudenza consente di portare avanti una educazione alla montagna – che è anche educazione alla vita e alla solidarietà – che appare sempre più importante, nella misura in cui l’accesso alla montagna diviene più facile e accessibile ad un vasto numero di persone. Nell’ottica del dialogo e dell’educazione alla montagna è importante la promozione di un incontro che mette a confronto il Club Alpino Italiano, istituzionalmente dedicato alle attività di montagna e alla educazione alla montagna, e le principali associazioni scout, per le quali il “fare strada” in montagna è parte integrante del percorso educativo di ragazzi e ragazze. La Fondazione Courmayeur è lieta e onorata di poter dare il proprio contributo a questa iniziativa. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
 40 www.fondazionecourmayeur.it 62 Il rischio in montagna La montagna - ed in particolare la montagna invernale - è un luogo che richiede preparazione, esperienza e prudenza, ma dove non è sempre possibile prevedere tutto. Un luogo dove l’uomo è soggetto alle regole della natura e non a regole scritte da altri uomini. L’attività in montagna è espressione di libertà, perché non risponde a regole prefissate, ma richiede come contropartita l’accettazione di un rischio che, pur se minimo, è ineliminabile e deve poter essere gestito al meglio, con scelte consapevoli e responsabili, a tutela della incolumità propria e altrui. Il rischio in montagna è inevitabile, perché la montagna è un luogo che non è soggetta in alcun modo al controllo, non risponde a regole prefissate, nè è possibile prevedere tutto ciò che può accadere. Il rischio in montagna può dipendere da un insieme di fattori. Da ciò deriva che la gestione del rischio in montagna implica l’adozione di precauzioni da parte di tutti gli “attori”: gli amministratori del territorio, che devono occuparsi dell’ambiente nel suo insieme (penso alla necessità di emanare ordinanze limitative, in particolari situazioni climatiche); coloro che fanno impresa in montagna, gestori di impianti e strutture, tenuti a garantire condizioni di sicurezza per l’esercizio di attività sportive; i professionisti della montagna, istruttori, allenatori e accompagnatori; da ultimo gli utenti, fruitori della pratica ludico-sportiva, che possono essere autori oltre che vittime, di condotte imprudenti e pericolose. Tra gli utenti io indicherei anche gli accompagnatori non sono professionisti, perché se anche assumono la responsabilità di accompagnare ragazzi o adulti meno competenti, non è detto che si tratti di persone così esperte da poter loro attribuire lo stesso ruolo che si attribuisce al professionista In primo luogo il rischio deriva dagli eventi naturali, più o meno “eccezionali” che, come tali, non possono essere attribuiti alla responsabilità di qualcuno. I rischi naturali per loro natura sono determinati da cause che nulla hanno a che vedere con l’uomo. Non sempre è possibile determinare la catena di causalità che origina un evento, in modo tale che questa conoscenza possa essere trasformata in una procedura previsionale dell’evento stesso. Gli organi di informazione, che tendono a etichettare molti eventi naturali come eccezionali (il caldo estivo, la pioggia autunnale, la nevicata), costituiscono una formidabile cassa di risonanza alle denunce e alle contestazioni di alcuni tra coloro che sono colpiti da questi eventi, con la conseguenza che divengono prioritarie da un lato la ricerca di un responsabile, dall’altro la richiesta di sicurezza “a tutti i costi”, nonostante questo non sia possibile. Le azioni che possono essere realizzate sul territorio per ridurre il livello del rischio, o quanto meno l’impatto dell’evento naturale, sono essenzialmente volte a identificare, valutare e monitorare i rischi e a predisporre sistemi di sorveglianza e di allerta. Si tratta tuttavia di interventi che – specie in alta montagna - incontrano diverse difficoltà, di carattere tecnico, economico e ambientale. Per altro verso, per quanto si possa cercare di intervenire preventivamente esiste sempre un rischio 63 residuo che si verifichi un evento più ampio o diverso da quello che è stato valutato sulla base degli strumenti e dei dati di riferimento. La consapevolezza dell’esistenza di un rischio diffuso de delle peculiarità dell’ambiente montagna – in particolare l’alta montagna nell’arco alpino – ha portato all’elaborazione di progetti europei, che impegnano le Regioni trasfrontaliere di Francia, Italia e Svizzera a cooperare nella gestione dei rischi naturali41. Ciò considerando anche che l’ambiente montagna sta cambiando, per ragioni climatiche, e che anche determinati rischi stanno cambiando, ad esempio perché il progressivo scioglimento dei ghiacciai rende accessibili zone che in precedenza non lo erano. In secondo luogo il rischio in montagna può dipendere dal comportamento degli utenti. La prima regola è che la salita in montagna deve essere preparata, a cominciare dall’equipaggiamento, che deve essere adeguato all’itinerario scelto e alle esigenze metereologi che, e questo i capi scout lo sanno bene, tanto che uno dei motti dello scoutismo è che “non esiste buono o cattivo tempo, esiste il buono o cattivo equipaggiamento”. La salita in montagna deve essere preparata nel momento in cui si sceglie il percorso, che deve essere valutato preventivamente ed essere adeguato alle capacità dell’utente, del capo e di chi lo segue. Infine, deve esserci con la disponibilità a tornare indietro, se vi sono condizioni impreviste che possono mettere a repentaglio la buona riuscita della salita. Un percorso in montagna, infatti, può presentare pericoli e imprevisti, anche se tracciato. Per altro verso, l’attività in montagna deve essere svolta in modo da non mettere a repentaglio l’incolumità di altri. Anche in questo caso il verificarsi di incidenti che colpiscono l’opinione pubblica porta a una domanda di sicurezza. Tuttavia l’introduzione di norme, regolamenti o divieti non è necessariamente utile alla prevenzione del rischio; al contrario, regole troppo stringenti possono contribuire a creare confusione, superficialità di giudizi e false credenze rischiando di distogliere l’attenzione dell’utente poco esperto e poco attento dalle proprie responsabilità42. Questo non esclude la necessità, in determinate situazioni, di introdurre delle regole; il legislatore, infatti, negli anni è intervenuto per disciplinare le modalità di svolgimento di alcune attività imprenditoriali e delle professioni tipiche della montagna43.
 !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
 41 Ad esempio il progetto RiskNet, che impegna la Valle d’Aosta quale capofila e che ha portato alla costituzione di un polo di competenza transfrontaliero destinato ai territori delle Alpi Occidentali. 42 Esempio tipico è quello dell’emissione di un ordinanza che limita l’accesso a determinati percorsi, per un certo periodo di tempo, in caso di maltempo. L’utente poco esperto e poco attento può dare per scontato che quando l’ordinanza sarà revocata il pericolo non esisterà più, o che non vi sia alcun pericolo in zone limitrofe a quelle interdette. 43 In particolare si ricordano: per quanto riguarda le professioni la L 81/91, per i maestri di sci, e la L. 6/89 per le guide alpine; per quanto riguarda lo svolgimento di attività imprenditoriali la L. 363/03 per la pratica di sporti invernali da discesa e da fondo e il d.lgs. 210/03 per l’esercizio di impianti a fune. 64 Per altro verso la prevenzione più efficace è legata alla promozione della conoscenza e dell’educazione e alla preparazione ad affrontare situazioni di emergenza nell’ambiente montano. In altri termini la prevenzione più efficace è la costruzione di una “cultura del rischio”, che consenta all’utente di conseguire consapevolezza del rischio e responsabilità nell’affrontarlo. Non si può impedire al singolo di assumersi il rischio di sperimentare le proprie possibilità in montagna, di superare una vetta, di percorrere una nuova via, purché ciò avvenga consapevolmente e senza coinvolgere altri, specie se meno esperti e consapevoli. Nella creazione di una cultura del rischio l’educazione dei giovani ha un ruolo determinante. La responsabilità in montagna La materia della responsabilità per gli incidenti in montagna non è stata oggetto di particolare approfondimento giurisprudenziale, sia sul piano civile (perché ha dato adito a un contenzioso limitato rispetto al numero degli incidenti verificatisi), sia sul piano penale (perché spesso i procedimenti penali, per omicidio o lesioni colpose, si definiscono con riti alternativi prima del processo). E’ stato correttamente osservato che questo dato esprime sia l’accettazione, da parte degli alpinisti (ma anche da parte degli scout), del fatto che andare in montagna comporta dei rischi, mai del tutto eliminabili, sia lo spirito di solidarietà reciproca e il senso di responsabilità per le proprie azioni44. In caso di incidente individuare la responsabilità dell’accompagnatore (colui che si sia unito ad altre persone per compiere o portare a termine un’escursione, assumendosi, anche tacitamente, la responsabilità di offrire loro collaborazione e protezione) dipende in gran parte dalla (ed è proporzionale alla) differenza di capacità e di esperienza fra l’accompagnatore e gli accompagnati e dal correlativo e necessario potere direttivo, al quale corrisponde una soggezione degli accompagnati45. In questi termini l’accompagnamento genera un affidamento degli accompagnati, a cui corrisponde un dovere di protezione (una posizione di garanzia) !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
 44 così Leonardo Lenti (professore ordinario di Diritto privato presso l’Università di Torino e istruttore della Scuola di alpinismo e di scialpinismo G. Ribaldone delle sezioni del CAI delle Valli di Lanzo) in La responsabilità civile degli accompagnatori non professionali nell’alpinismo e nello scialpinismo. In tema di responsabilità in montagna si richiamano: Vincenzo Torti, La responsabilità nell’accompagnamento in montagna, CAI, Milano, 1994 e Maurizio Flick, Il punto sulla legislazione, la giurisprudenza e la dottrina, 1994-2004, Fondazione Courmayeur, 2004. Con riferimento alla responsabilità penale: Lucia Gizzi Le fonti dell’obbligo di garantire che non si verifichi l’evento lesivo, nota a Cass. Pen. IV, ud. 22.5.2007, n. 25527, in Cass. Pen. 3/2008, 989. 45 Trib Trento, 6 dicembre 1949, in Riv. Dir. Sport. 1950, 3-4, 119 65 dell’accompagnatore, tale da poter comportare la responsabilità penale di quest’ultimo, per le lesioni o il decesso di un escursionista. Il livello di affidamento e del relativo dovere di protezione dipende da una serie di variabili: tra queste la qualifica dell’accompagnatore, il grado di difficoltà dell’escursione; il divario tra la capacità dell’accompagnatore e quella dell’accompagnato; la capacità dell’accompagnato di affrontare da solo l’escursione. Sul piano normativo il legislatore ha disciplinato l’attività svolta professionalmente, dalle guide alpine e degli accompagnatori di media montagna, o nell’ambito del Club Alpino Italiano, quale struttura istituzionale e organizzata ancorché non professionale.46 L’accompagnamento non professionale - che si svolge nell’ambito di un rapporto fra singoli ed è oggetto di un accordo, anche tacito, fra le parti - resta disciplinato dalle regole generali in tema di responsabilità extracontrattuale e da fatto illecito47 48. Tuttavia l’esame delle (poche) regole che disciplinano l’accompagnamento professionale può essere d’aiuto per individuare e definire l’ambito delle responsabilità dell’accompagnatore non professionale. Attività regolamentata e accompagnamento non professionale L’esercizio stabile della professione - di guida alpina o di accompagnatore di media montagna - è riservato a coloro che avendo ottenuto la necessaria abilitazione tecnica (che prevede la frequenza di corsi teorico-pratici e il superante di esami), siano iscritti in appositi albi ed elenchi professionali49. La legge inoltre classifica i tipi di accompagnamento, differenziandoli in base alla tipologia dei percorsi, alle condizioni climatiche e ai mezzi che di conseguenza devono essere impiegati. Alla guida alpina sono riservate alcune attività, che sono state parzialmente regolamentate. Si tratta: dell’accompagnamento di persone in ascensioni, sia su roccia che su ghiaccio, o in escursioni in montagna; dell’accompagnamento di persone in ascensioni sci-alpinistiche o in escursioni sciistiche (in particolare al di fuori delle stazioni sciistiche attrezzate o delle pista da discesa o di fondo); dell’insegnamento delle tecniche alpinistiche e sci-alpinistiche. L’aspirante-guida svolge la stesse attività della guida, con esclusione delle ascensioni di “maggiore impegno” (come definite dalle leggi regionali con riguardo alle caratteristiche delle zone montuose). !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
46 L. 6/89 recante l’ordinamento della professione di guida alpina. 47 Questo tipo di accompagnamento deve essere gratuito, altrimenti costituisce esercizio abusivo della professione di guida. 48 L’accompagnatore professionale, invece, comporta anche una responsabilità contrattuale. 49 L. 2 gennaio 1989, n. 6 66 L’accompagnatore di media montagna svolge le stesse attività della guida alpina con alcune limitazioni, poiché gli è precluso di accompagnare le persone in zone rocciose, sui ghiacciai, sui terreni innevati e su quelli che richiedono comunque, per la progressione, l’uso di corda, piccozza e ramponi 50 . Ne consegue che l’accompagnatore di media montagna – a differenza della guida alpina - non è tenuto ad avere specifiche conoscenze circa l’impiego e le modalità di utilizzo e di mantenimento di attrezzatura alpinistica quali ramponi, piccozza, corda e sci. La regolamentazione dei dettaglio dell’accompagnamento di media montagna è stato rimesso invece alla legislazione regionale51, che può istituire appositi elenchi 52. Negli ultimi anni è nata una nuova figura di accompagnatore professionale: la “guida ambientale escursionistica”, che accompagna in sicurezza in tutto il territorio, senza l’uso di mezzi per la progressione alpinistica e che è inquadrabile nella L. 4/2013, che disciplina le professioni non organizzate. La legge riconosce un ruolo anche al Club Alpino Italiano (CAI), “libera associazione” che ha come scopo l’alpinismo in ogni sua manifestazione, la conoscenza e lo studio delle montagne e la difesa del loro ambiente naturale53. Il CAI a seguito del riordino effettuato tra gli anni sessanta e gli anni ottanta dello scorso secolo 54 , provvede a svolgere, non professionalmente (ma volontariamente e gratuitamente), una serie di attività, tra cui la formazione di istruttori in grado di svolgere corsi di addestramento per le attività alpinistiche ed escursionistiche. I regolamenti interni del CAI55 prevedono diverse figure, tra cui gli accompagnatori di alpinismo giovanile, che sono autorizzate a svolgere determinate attività dopo il superato degli esami di abilitazione e previa iscrizione all’albo tenuto presso la sede centrale. Al di fuori del CAI l’accompagnamento non professionale non è disciplinato e per inquadrarlo si deve fare riferimento ai principi generali. Alla base dell’accompagnamento in montagna si pone il rapporto tra l’accompagnatore e l’accompagnato. Il primo è colui che coordina o si unisce ad un gruppo di persone per compiere una gita, offrendo agli accompagnati collaborazione !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
50 L. 2 gennaio 1989 n. 6, art. 21 :“L'accompagnatore di media montagna svolge in una zona o regione determinata le attività di accompagnamento di cui al comma 1 dell'articolo 2, con esclusione delle zone rocciose, dei ghiacciai, dei terreni innevati e di quelli che richiedono comunque, per la progressione, l'uso di corda, piccozza e ramponi, e illustra alle persone accompagnate le caratteristiche dell'ambiente montano percorso”. 51 Cfr art.2 co.1 lett.a) L.R. Lazio 1 marzo 2007, n.3; art.16 co.1 lett. a) L.R. Abruzzo 16 settembre 1998 n.86 52 Art.3 L.R Lazio, 1 marzo 2007 n.3; art.39 e 39 bis L.R. Marche, 23 gennaio 1996 n.4; art. 14 L.R Lombardia 8 ottobre 2002, n.26 ;artt.17-27 L.R. Abruzzo 16 settembre 1998 n.86 53 Statuto CAI, art. 1 54 L. 26 gennaio 1963, n. 91 e L. 24 dicembre 1985, n. 776 55 In particolare il Regolamento per gli Organi Tecnici Operativi, approvato nel 2007 modificato da ultimo nel 2013 67 e protezione e assumendosi, anche, un potere direttivo. I secondi sono soggetti che si affidano alle capacità ed esperienza dell’accompagnatore e che si trovano in una situazione di soggezione verso quest’ultimo. I poli opposti di questo rapporto sono il dovere di protezione da parte dell’accompagnatore e un generale affidamento degli accompagnati. Criteri di attribuzione della responsabilità Nell’accompagnamento non professionale il grado di affidamento dell’escursionista dipende dalla capacità e dalla qualifica dell’accompagnatore. L’accompagnamento effettuato da un istruttore del CAI crea un affidamento molto ampio, data la nota e incontestata importanza sociale che esso riveste; ne consegue che si potrà fare una valutazione rigorosa della responsabilità dell’accompagnatore: nella scelta della gita e del momento in cui farla, nell’ammissione degli allievi a parteciparvi, in relazione alle loro capacità. Anche l’accompagnamento effettuato da un accompagnatore del CAI genera un notevole affidamento, perché si tratta di un’attività tipicamente associazionistica, legata a un ente che ha lo scopo fondamentale di avvicinare alla montagna e di favorirne una frequentazione consapevole e sicura56. Nell’accompagnamento per amicizia e cortesia, invece, non vi può essere alcuna presunzione: l’affidamento può nascere soltanto se vi è un accordo fra l’accompagnatore e l’accompagnato, con il quale il primo garantisca al secondo aiuto e protezione, assumendosi contestualmente un potere direttivo. In caso di incidente durante un’escursione è necessario chiedersi se esso sia ascrivibile a un errore compiuto dall’accompagnatore, dall’accompagnato o da un terzo (per negligenza, imprudenza o imperizia) oppure se sia dovuto a cause imprevedibili. L’errore può riguardare l’organizzazione dell’escursione (ad esempio: scelta dell’itinerario o della giornata; poca attenzione alle condizioni metereologiche57; mancanza di equipaggiamento adeguato); la valutazione delle capacità dell’accompagnato (ad esempio: capacità tecnica, resistenza fisica, velocità, padronanza dei nervi in caso di difficoltà); lo svolgimento dell’escursione (ad esempio: non essersi fermati o non aver cambiato tragitto in caso cambiamento delle condizioni meteo o di forte rallentamento della marcia). Tanto più l’escursione presenta difficoltà prossime al limite di capacità dell’accompagnato, tanto maggiore deve essere la capacità dell’accompagnatore. Ancora, chi assume la responsabilità dell’accompagnamento deve conoscere l’itinerario e le difficoltà che presenta: non solo in generale, ma anche nel periodo specifico in cui si effettua l’escursione, in !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 56 Cfr. Cass. Civ. III, 12900/12, che ha riconosciuto la responsabilità per esercizio di attività pericolosa in riferimento a un escursione alpinistica organizzata dal CAI nell’ambito di un corso di alpinismo. 57 Cfr. Cass. Pen. IV, 26116/2008, CED RV 240845, secondo cui in tema di omicidio colposo sussiste la responsabilità del maestro di sci che abbia accompagnato gli allievi in un percorso fuori pista, indicato come pericoloso, in un giorno nel quale era stato segnalato il rischio di distacco valanghe. 68 particolare in riferimento alle condizioni metereologiche e all’orario (ad esempio: pericolo di valanghe o frane, condizioni insicure dell’innevamento e dei pendii, presenza di placche di ghiaccio). In sostanza, l’accompagnatore risponde per i danni derivanti da incidenti dovuti a eventi naturali se e nella misura in cui erano ragionevolmente prevedibili, a causa delle condizioni esterne o a causa dell’inadeguatezza delle capacità dell’accompagnato rispetto al percorso scelto. La responsabilità del primo, come già anticipato, potrà essere valutata con rigore tanto maggiore quanto maggiore è l’affidamento creato nell’accompagnato. Concretamente, nel caso in cui durante una gita si verifichi un incidente la responsabilità dell’accompagnatore può derivare da un errore nella fase di organizzazione della gita (la scelta dell’itinerario da seguire, le capacità dell’accompagnato rispetto alla difficoltà della gita oppure l’analisi delle condizioni meteorologiche), oppure nella fase di svolgimento della stessa (errori di tipo tecnico compiuti durante la gita). Responsabilità penale L’accompagnatore può essere chiamato a rispondere penalmente per l’incidente subito dall’accompagnato se l’evento lesivo - morte o lesioni - era prevedibile con un sufficiente grado di approssimazione ed è stato determinato, almeno in parte, dalla condotta colposa dell’accompagnatore - intendendo la colpa come imprudenza, negligenza e imperizia - o in caso di violazione di leggi, regolamenti ordini e discipline. La condotta imputabile all’accompagnatore può consistere in un’azione o in un’omissione; il codice penale, infatti, individua l’omissione tra le condotte che determinano la responsabilità penale, ove vi sia uno specifico obbligo di garanzia, ovvero l’obbligo giuridico di attivarsi per impedire l’evento dannoso. Nell’accompagnamento non professionale in montagna l’obbligo di garanzia può derivare dall’affidamento che nasce da un rapporto di associazione in essere, da un rapporto di cortesia, o dal compimento di una precedente attività lecita, dalla quale derivi una accertata condizione di pericolosità per il terzo. L’assunzione dell’obbligo di garanzia da parte dell’accompagnatore può nascere anche da un accordo con l’accompagnato, non essendo necessario che l’accompagnatore assuma volontariamente e unilateralmente compiti di tutela58. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 58 Così Cass. Pen. IV n. 25527/2007, che ha confermato la condanna per omicidio colposo pronunciata nei confronti di un poliziotto addetto al servizio piste, che si era assunto l’incarico di accompagnare a valle, a bordo di alcuni slittini, i partecipanti ad una cena in un rifugio alpino. L’assunzione, di fatto, dell’incarico di controllare la discesa di un gruppo di persone, da parte di persona esperta e conoscitrice dei luoghi, ha indotto i discesisti, che hanno fatto affidamento nella competenza, capacità ed esperienza dell’accompagnatore, ad affrontare la situazione di pericolo costituita dalla discesa notturna, in Cass. Pen. 3/2008, cit. 69 Ciò che conta, ai fini dell’attribuzione di responsabilità, è il fatto che l’affidamento sulla disponibilità del garante induce la persona protetta ad affrontare rischi particolari o a rinunciare ad altre forme di tutela. Responsabilità civile Come detto l’accompagnamento volontario è posto in essere per amicizia o per cortesia, gratuitamente. Dal carattere certamente non contrattuale di questa forma di accompagnamento può derivare una responsabilità extracontrattuale, quanto meno per “colpa”, commisurata al grado di affidamento richiesto e garantito. Tuttavia sarà l’accompagnato a dover dimostrare la negligenza, l’imprudenza o l’imperizia dell’accompagnatore, nonché l’esistenza del nesso di causalità fra il comportamento di quest’ultimo e l’incidente produttivo del danno. L’accompagnatore, che si assume la responsabilità della gita, risponde per i danni derivanti da incidenti dovuti ad eventi naturali, se e nella misura in cui erano prevedibili; in sostanza, l’accompagnatore si libera da responsabilità solo nella circostanza in cui l’incidente sia dovuto a caso fortuito o forza maggiore o qualora il nesso di causalità si interrompa. Accompagnamento in montagna e attività pericolosa Ben diverse sono le conseguenze se l’attività di montagna è considerata una “attività pericolosa”59: in questo caso, infatti, si richiede un un più elevato grado di diligenza nell’esercizio dell’attività, e si presume la colpa dell’agente per il danno prodotto. Ne deriva che il danneggiante dovrà provare di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno, mentre il danneggiato potrà limitarsi a dimostrare l’esistenza del danno ed il nesso causale tra esso e lo svolgimento dell’attività pericolosa. Le attività che non sono espressamente qualificate come pericolose, possono essere ritenute tali per la natura delle cose e dei mezzi che vengono adoperati per il loro svolgimento60. In quest’ultima ipotesi la valutazione sulla pericolosità dell’attività !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

In termini simili Cass. Pen. IV, n. 23090/2002, che ha confermato la condanna per omicidio colposo, pronunciata nei confronti di una guida-accompagnatore di un gruppo per la morte di un escursionista, il quale, sia pure contravvenendo al generico, previo avvertimento di non allontanarsi dal gruppo, si sia avventurato, non imprevedibilmente, in un passaggio la cui particolare pericolosità non era stata in precedenza segnalata, CED RV 226428. Ancora si richiamano: Cass. Pen. IV, n. 26116/2008, CED RV 240845, in tema di responsabilità per omicidio colposo del maestro di sci che abbia accompagnato gli allievi in un percorso fuori pista, indicato come pericoloso, in un giorno nel quale era stato segnalato il rischio di distacco di valanghe; Trib Bolzano 14 giugno 1975, in Riv. Dir. Sport. 1975, 365, in tema di responsabilità per omicidio colposo del comandante di una compagnia di alpini per non avere sospeso tempestivamente la continuazione della marcia, pur essendo prevedibile il rischio di valanghe. 59 Cfr Cass. Civ. n. 8095 del 2006; Cass. Civ. n. 24799 del 2005. 60 Cfr Cass.civ. n. 8095 del 2006 70 svolta sarà effettuata in concreto, in relazione al grado di probabilità degli eventi dannosi che possono determinarsi nel corso di questa e non con riferimento al grado di diligenza normalmente usata da coloro che ne prendono parte, che di per sé potrebbe essere sempre inadeguato61. Si dovrà, cioè, porre l’accento sulla natura dell’attività e sulle caratteristiche dei mezzi utilizzati, sia nel caso in cui il danno si presenti come conseguenza dell’azione, sia nel caso in cui il danno derivi da un’omissione delle cautele che si dovevano. Nell’applicazione concreta alcuni Giudici di merito propendono per considerare l’accompagnamento in montagna come attività pericolosa62. In senso contrario depone un argomento di tipo letterale, dal momento che non si ravvisa in essa né una pericolosità nei mezzi utilizzati né nella natura della stessa, elementi espressamente richiamati dal dettato legislativo 63: le attività di montagna, dunque, sono attività normalmente innocue che possono diventare pericolose per la condotta di chi le esercita. In proposito è fondamentale la distinzione effettuata dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui tutte le attività umane hanno in sé un grado di pericolosità più o meno elevato e che bisogna distinguere tra pericolosità della condotta e pericolosità dell’attività in quanto tale: “la prima riguarda un’attività normalmente innocua, che assume i caratteri di pericolosità a causa della condotta imprudente o negligente dell’operatore, ed è elemento costitutivo della responsabilità ai sensi dell’art. 2043 c.c.; la seconda concerne un’attività che, invece, è potenzialmente dannosa di per se per l’alta percentuale di danni che può provocare in ragione della sua natura o della tipologia dei mezzi adoperati e rappresenta una componente della responsabilità disciplinata dall’art. 2050 c.c.”64 Si può aggiungere che, ove si voglia attribuire una connotazione di pericolosità all’attività alpinistica, si dovrebbe tenere conto della distinzione che la legge 6/89 fa tra attività di alta montagna e attività di media montagna, per cui il giudizio di pericolosità sulla prima non implicherebbe automaticamente il medesimo anche sul secondo tipo di attività, che non richiede per il suo svolgimento l’utilizzo di attrezzatura particolare. Tale distinzione tra le attività potrà avere particolare rilievo nella considerazione e valutazione tanto delle proposte di copertura assicurativa che nel caso di richiesta di risarcimento danni alla Compagnia assicuratrice; in particolare, nella valutazione di polizze assicurative per il rischio degli Associati, non dovranno essere inserite
 !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
61 non è pericolosa l’attività che non deriva da fatti estranei all’attività, ma è una conseguenza della condotta di chi la esercita così Cass. Civ. n. 13530 del 1992; si veda inoltre Cass. Civ. n. 7916 del 2004 e Cass. Civ. 2220 del 2000 nonché Cass. Civ. n.7916 del 2004, in riferimento all’attività di gestione di un’impianto di risalita. 62Trib. Milano 21 novembre 2002, in Giur. milanese, 2003, 80; Trib. Verbania, 17 febbraio 1994, Riv.dir.sport.1999, 545 63 Così Leonardo Lenti, La responsabilità civile degli accompagnatori non professionali nell’alpinismo e nello scialpinismo. 64 Cass. Civ., Sez. III, Sent. n. 20357 del 21/10/2005, (rv. 584516) . 71 clausole di esclusione dal rischio dell’attività in montagna, poiché tali attività non rientrano di per sé solo tra quelle pericolose; così, ancora, la Compagnia assicuratrice non potrà rifiutare il risarcimento di danni subiti in attività di montagna se non, in estrema ipotesi, nel caso di specifiche attività, effettivamente classificabili come pericolose (attività alpinistica, alta montagna ghiaccio ecc…)65. Responsabilità in montagna e scoutismo Allo scoutismo si applicano le regole generali. In particolare, nel caso dell’accompagnamento in montagna il capo scout deve individuare il metodo di comportamento migliore nella preparazione e durante lo svolgimento dell’attività. Ciò significa che il capo deve proporre soltanto quelle attività di cui possiede un’adeguata conoscenza metodologica, una capacità organizzativa, nonché un’attitudine tecnica: è importante, in sintesi, che egli valuti con attenzione i propri limiti. Inoltre, prima della partenza, il capo dovrà fornire al suo gruppo le informazioni necessarie sull’attività da svolgere, accertandosi alla partenza che tutti i partecipanti siano forniti del materiale necessario e siano concretamente in grado di utilizzarlo. Infine è importante accertare le capacità fisiche e psicologiche di ogni componente del gruppo. Nessuna legge disciplina espressamente una responsabilità legale per il capo scout, ma detta obblighi e regola le conseguenti responsabilità per categorie di persone che svolgono attività che presentano finalità simili a quelle cui sono dirette le attività scout, come, ad esempio i precettori 66. Per valutare la responsabilità del capo scout nell’accompagnamento in montagna, in particolare la responsabilità penale, devono applicarsi le regole già indicate: si può individuare una responsabilità del capo in relazione ad un incidente occorso ad un componente del gruppo accompagnato, nella misura in cui il verificarsi dell’evento lesivo sia stato determinato dalla condotta del capo stesso, caratterizzata da imprudenza, negligenza o imperizia67. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
65 Per le problematiche inerenti i contratti di assicurazione si veda la pubblicazione della Fondazione Courmayeur Mont Blanc, Montagna, Rischio e Assicurazione, Atti del Convegno, Courmayeur, 5 aprile 2013, in www.fondazionecourmayeur.it 66 Trib. Roma, Sent. del 24/03/2000 Tramentozzi c. Circolo Ansel, Fonte: Giur. romana, 2000, 455 afferma che “l’istruttore sportivo è responsabile del danno causato a se medesimo dall’allievo durante la lezione, a meno che non dimostri che il gesto auto lesivo dell’allievo sia stato svolto con imprevedibilità e repentinità tali da rendere impossibile ogni intervento dell’istruttore”. 67 Si richiama in materia di responsabilità del capo scout Cass. Civ. III, n. 10213/01 per i danni subiti, durante un campo, da un minore colpito da una palla da baseball lanciata da uno dei capi durante un gioco. Si ricorda anche la nota vicenda, accaduta alcuni anni fa in un campo estivo in Valtellina, nella quale le tende costruite sul greto del torrente sono state travolte da una piena, con il conseguente decesso di tre guide; la vicenda in questione è stata definita con il rito abbreviato del patteggiamento. 72 Non si possono invece individuare profili di colpa specifica nell’accompagnamento in montagna effettuato dal capo scout, dato che egli non svolge attività di accompagnamento professionale, alla quale unicamente è riferibile la legge sull’attività della guida alpina, che ne individua i limiti di liceità; ciò a meno che il capo scout nello svolgere la propria attività violi specifiche disposizioni normative che, segnalando la presenza di pericoli per l’incolumità personale dovuti alla cattiva manutenzione del territorio montano o alle condizioni climatiche in esso presenti68, impongono al visitatore di attenersi a determinate condotte. La posizione che riveste un capo scout nell’accompagnamento in montagna è peculiare: egli, infatti, non è un accompagnatore titolato, né tanto meno un professionista, tuttavia nei confronti degli accompagnati svolge un ruolo di direzione determinato dall’appartenenza all’associazione scout e dai principi che ne regolano l’attività69. L’affidamento è dunque minore di quello che si crea in ambito CAI, ma resta tuttavia il fatto che vi è un legame con aspettative di carattere associazionistico; infatti, il fare “strada” in montagna nello scoutismo è una delle attività svolte con maggiore frequenza, anche se non può essere qualificata come attività fondamentale dell’associazione. Il grado di affidamento è, evidentemente, maggiore se gli accompagnati sono giovani con meno di diciotto anni, che risultano affidati in custodia al capo, o all’aiuto. La formazione stessa del capo non è finalizzata al superamento di un esame per l’iscrizione ad uno specifico albo professionale, ma è una formazione basata sul passaggio di nozioni tra i capi dell’associazione, che, pur fornendo alcune cognizioni tecniche, non solo di tipo alpinistico, si fonda soprattutto su aspetti educativi. Tuttavia la definizione di accompagnamento volontario non è idonea a delineare in modo esaustivo il ruolo e i profili delle competenze che il capo clan o fuoco assumono quando svolgono accompagnamento in montagna, in quanto con tale termine si definisce tanto l’accompagnamento cosiddetto “di cortesia” tanto quello svolto delle guide e accompagnatori CAI. Rispetto all’accompagnamento della guida CAI l’accompagnamento del capo scout si pone su un livello inferiore per quanto attiene alla conoscenza delle tecniche alpinistiche. Rispetto all’accompagnamento “di cortesia”, d’altra parte, come quello intercorrente tra un gruppo di amici che si affidano ad un soggetto più esperto per svolgere escursioni in montagna, vi sono alcuni importati elementi di distinzione; primo tra tutti il rapporto che sottende all’accompagnamento tra il capo scout e gli accompagnati che, se minori, gli vengono affidati. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
 68 Ad esempio si pensi a ordinanze del sindaco che dispongano la chiusura di strade o sentieri. 69 Ad esempio, nella preparazione del campo mobile il capo deve studiare le caratteristiche morfologiche, fisiche e naturalistiche dell’ambiente e predisporre e verificare mezzi ed equipaggiamenti, non sottovalutando le insidie del percorso scelto. Cfr. Norme direttive F.S.E. e cerimoniale della Branca Rover, 57; si richiama anche il sussidio della Branca Rover n. 2 sul campo mobile, 24 e 25. 73 I genitori che autorizzano la partecipazione dei figli ai campi e alle uscite in montagna e i ragazzi stessi, quindi, si affidano al capo scout in quanto riconoscono in lui una maggiore competenza, se non altro per la differenza di età che egli possiede rispetto ai ragazzi e per l’esperienza che a sua volta ha maturato nel corso degli anni all’interno dello scoutismo. Tuttavia i genitori e i ragazzi maggiorenni, pur consapevoli, di non affidarsi ad una guida alpina, possono non possedere la stessa consapevolezza circa i rischi legati a tale tipo di accompagnamento non professionale. Ciò implica la necessità di creare nei capi scout quella “cultura del rischio” necessaria per la prevenzione e la gestione del rischio stesso. Tale necessità va tuttavia bilanciata con il fatto che l’indicazione tassativa sulle modalità di svolgimento dell’attività in montagna o la previsione di una formazione qualificata in materia alpinistica, potrebbe non solo accrescere il grado della responsabilità per i danni che si verificano nel corso delle attività, ma anche progressivamente stravolgere le finalità dello scautismo. Nella valutazione degli interventi può essere utile tenere conto della già richiamata distinzione prevista dalla legge tra accompagnatori di media montagna e di alta montagna, sulla base della difficoltà dei percorsi, delle condizioni climatiche presenti in essi e delle attrezzature che devono essere impiegate. La classificazione, inoltre, può costituire un riferimento per distinguere - anche predisponendo documenti specifici o richiedendo un particolare percorso formativo e abilitativo - tra le escursioni in montagna, al fine, da un lato, di graduare preventivamente e in astratto il livello di difficoltà tecnica delle escursioni, dall’altro di individuare per ciascun livello le competenze tecniche che l’accompagnatore dovrebbe possedere e l’attrezzatura necessaria70. Conclusioni La montagna è espressione di libertà e di sfida, ma è anche un luogo che richiede preparazione, esperienza e prudenza. Un luogo, come detto, dove non è possibile prevedere tutto e dove esiste sempre e comunque un rischio. Le valutazioni per prevenire il rischio devono riguarda l’equipaggiamento e le capacità dell’accompagnatore e dell’accompagnato (anche rispetto alla durata del percorso o delle condizioni climatiche) oltre che il tempo e il luogo; nello svolgimento dell’attività l’attenzione deve essere rivolta ad evitare errori tecnici. Ciò perché nel momento in cui l’incidente accade, la valutazione di quale era il terreno su cui ci si è mossi, quali erano le condizioni metereologiche, quali erano le direttive emanate (se !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 70 Tra le nozioni tecniche che l’accompagnatore di media montagna deve possedere vi sono: la preparazione attrezzi ed equipaggiamento, elementi di pronto soccorso, lettura e interpretazione di carte topografiche, orientamento, meteorologia (cfr art. 20 L.R. Abruzzo 16 settembre 1998 n. 86). 74 ce n’erano) da parte dell’amministrazione locale, sono elementi che necessariamente sono presi in considerazione. Vivere la montagna con responsabilità richiede di sviluppare una cultura del rischio consapevole e di trasmettere questa cultura ai giovani. Questo onere di trasmissione spetta anche agli accompagnatori non professionisti, i quali devono essi stessi acquisire le conoscenze necessarie per accompagnare in sicurezza. La distinzione fra l’alpinismo e l’attività di media montagna, introdotta dalla legge, può essere utile per trovare un discrimine fra attività da considerare “rischiosa”, e l’attività da considerare “normale”, che può diventare pericolosa soltanto a causa di particolari condizioni climatiche, o di comportamenti imprudenti da parte degli accompagnatori. Dunque nella scelta del percorso da un lato dobbiamo mettere l’alpinismo, o l’utilizzo di particolari attrezzature, dall’altro la montagna su sentiero, facile o difficile che sia, che è gestibile anche senza una preparazione specifica. L’adulto che accompagna i ragazzi se svolge l’attività individuata come rischiosa deve necessariamente essere tecnicamente pronto a farlo, avendo acquisito la preparazione adeguata. Tuttavia l’accompagnatore scout non è un accompagnatore CAI, né può diventarlo, perché questo porterebbe ad una stravolgimento di quello che è lo spirito e l’impostazione dello scautismo, che approccia la montagna per insegnare i ragazzi a “fare strada”, ma in un contesto educativo più ampio. E certamente il grado di affidamento (e la conseguente accettazione del rischio) che si ha, che i genitori hanno, nel lasciare che i ragazzi siano accompagnati dai capi scout è diverso da quello che si ha affidandosi a un accompagnatore CAI. Questa distinzione deve essere tenuta presente anche nel momento in cui si ragiona di come sviluppare ed elaborare delle regole tecniche interne all’associazionismo scout, che sono indispensabili per acquisire nel modo più corretto la cultura del rischio e della responsabilità in montagna. La sfida sta nel riuscire ad evitare che la regolamentazione l’obbligatorietà della formazione tecnica portino dei limiti alla fantasia e al desiderio di scoperta degli scout. *** È innegabile che la montagna per le caratteristiche morfologiche dell’ambiente e per gli eventi atmosferici ai quali è sottoposto l’ambiente montano stesso, comporta dei rischi per chi la frequenta. Anche il più esperto alpinista o sciatore estremo purché conoscitore dell’ambiente montano e delle sue caratteristiche anche più insidiose, deve comunque adottare una maggior cautela, diligenza e prudenza (di cui già abbiamo trattato prima) nel praticare attività in questo ambiente così bello così affascinante ma che nasconde sempre dei rischi. 75 Con l’Avv. Flick abbiamo esaminato tutti i rischi e tutte le responsabilità che si possono profilare in montagna segnatamente alle attività che ivi vengono svolte con particolare attenzione all’accompagnamento che è una delle attività che frequentemente viene svolta dalle associazioni scoutistiche.

http://www.agesciabruzzo.it/wp-content/uploads/2015/11/Atti_Convegno_Scout_Romanini.pdf