EDUCARE ATTRAVERSO L’AVVENTURA: IL RISCHIO
CONSENTITO NELLE ATTIVITÀ SCOUT
Sergio Colaiocco
1. Premessa; 2. Peculiarità delle attività scout; 3. La misura della
diligenza richiesta all’adulto educatore; 4. Conclusioni.
1. PREMESSA
La teoria del rischio consentito, nata in Germania come “erlaubtes
risiko”
1
, è stata ripresa e fatta propria da dottrina e giurisprudenza le
quali si sono esercitate nel mettere a fuoco l’ambito di ammissibilità
nel nostro ordinamento di siffatta categoria giuridica, in particolare
nei settori produttivi e dell’attività sportiva.
L’individuazione degli ambiti di applicabilità della categoria del
“rischio consentito” 2 non ha, però, sinora riguardato una tra le più
diffuse realtà giovanili, l’attività scout, nella quale non raramente è
messa a rischio l’incolumità personale dei giovani che vi
partecipano e in cui, quindi, non può parlarsi d’imprevedibilità di
eventi dannosi.3
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
1 Per approfondimenti H.H. Jescheck, Lehrbuch des Strafrechts 4° ed Berlin 1988, 360
ss.
2Rischio e pericolo sono termini spesso usati come sinonimi nel linguaggio comune.
Nel campo del diritto penale, invece, i due vocaboli devono rimanere nettamente
distinti; ciò anche se permane un nucleo ad essi comune consistente nel fatto che
entrambi esprimono una relazione tra una situazione e un evento connotato
negativamente. Tuttavia il ruolo che concretamente è stato assegnato al pericolo dal
legislatore è diverso da quello che può essere assegnato al rischio. Il pericolo, infatti,
serve, in via principale, ad anticipare la tutela dei beni giuridici a un momento
antecedente la loro effettiva lesione. Il rischio, invece, nasce come categoria giuridica
al momento dell’emersione della necessità di garantire determinate attività – lo
sfruttamento delle miniere, l’automazione del lavoro nelle fabbriche, l’attività
ferroviaria, il trasporto a motore – in cui non può parlarsi di imprevedibilità
dell’evento dannoso ma alle quali, però, la società non intendeva rinunciare.
3 Ecco una breve panoramica della casistica. Il 21.2.1994 tre scout e il loro Capo sono
investiti da un’autovettura mentre camminano nel Comune di Camerata Nuova, in
Abruzzo, in ora notturna su strada provinciale; il conducente sarà condannato per
omicidio plurimo colposo e guida in stato di ebbrezza. Il 7 Agosto 1996 nelle
Dolomiti di Sesto muore un rover scivolando mentre percorre la ferrata “Aldo Rogel”;
il procedimento sarà archiviato. L’8.12.2008 in un incidente sui monti di Brienno,
sopra al Lago di Como, muore una Capo nel corso di un’escursione. Il 7.8.1999 in Val
Chiavenna muoiono tre ragazze di Verona nel corso di un campo estivo mentre
dormivano su una tenda sopraelevata, montata su un torrente. I sei Capi definiranno
11
Come mai quest’esclusione? Forse anche perché le attività
scoutistiche, pur coinvolgendo in Italia oltre duecentomila giovani,
sono state solo raramente oggetto di pronunce della Corte di
Cassazione. Ciò in ragione del fatto che gli imputati sono ricorsi
nella maggioranza dei casi a riti alternativi, in specie
all’applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p. 4
Questa peculiarità sembra aver impedito, da un lato, alla
giurisprudenza di pervenire ad articolate e motivate pronunce sia di
merito sia di legittimità e, dall’altro, alla dottrina di dare il proprio
contributo all’elaborazione di un percorso logico-giuridico
utilizzabile sia dalla magistratura requirente sia da quella giudicante.
Pare allora utile domandarsi se la categoria giuridica del rischio
consentito, come fatta propria finanche dalla Corte di Cassazione,
possa trovare applicazione anche in un settore particolare quale
quello scout; ciò, infatti, permetterebbe di definire i casi nei quali
l’adulto responsabile potrebbe andare esente da responsabilità pur
in presenza di eventi negativi astrattamente prevedibili.
Orbene, questo scritto, rinviando ad altre sedi per una ricostruzione
storico- giuridica della teoria del rischio consentito vuol limitarsi a
esaminarne, come detto, l’applicabilità all’attività scoutistica.
Proprio per questo appare utile accennare a quali siano le peculiarità
di quest’agenzia educativa.
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con patteggiamento a un anno e otto mesi di reclusione il procedimento penale. Il
30.6.2009 sul Pollino un rover cade da una parete di roccia; contusioni e lesioni. Il
4.1.2009 nel bellunese un rover di 16 anni scivola su un sentiero e muore. Il Capo e
l’aiuto definiranno il procedimento penale con patteggiamento a un anno di reclusione.
Il 15.3.2010 tre scout provocano un incendio vicino Casso mentre accendono un
fuoco. L’ 11.12.2012 una scout di 17 anni è investita da un’auto mentre stava
attraversando la strada a Casalmaiocco nel Lodigiano; il conducente è condannato, con
rito abbreviato, a tre anni e quattro mesi di reclusione per omicidio colposo e guida in
stato di ebbrezza. Il 4.1.2013 in Valbiondone, una ragazza quindicenne, nel giocare
sulla neve con delle camere d’aria, non riesce a fermarsi e cade in un dirupo; tre Capi
patteggeranno una pena di sei mesi di reclusione ognuno.
4 Al riguardo si è osservato che il dato esprime un’accettazione profondamente sentita,
da parte di tutti coloro che conoscono “da dentro” lo scoutismo – Capi, genitori e
ragazzi - che queste attività comportano rischi mai del tutto eliminabili. Inoltre
manifesta soprattutto un atteggiamento psicologico caratteristico, molto diffuso fra le
persone che fanno esperienze di vita nell’ambiente naturale: i loro comportamenti
sono governati da spirito di solidarietà reciproca e da senso di responsabilità per le
proprie azioni, anzitutto sul piano etico, forgiato dall’esperienza; a proposito
dell’alpinismo si veda, in tal senso, Leonardo Lenti in La responsabilità civile degli
accompagnatori non professionali nell’alpinismo e nello scialpinismo.
12
2. PECULIARITÀ DELLE ATTIVITÀ SCOUT
In Italia sono oggi presenti numerose associazioni aderenti al
movimento scout che fanno propri i principi pedagogici di Lord
Baden Powell. 5
Il movimento scout ha come scopo “l'educazione dei giovani
mediante lo sviluppo delle proprie attitudini fisiche, morali, sociali
e spirituali. Il metodo educativo si basa “sull'imparare facendo”
attraverso attività all'aria aperta e in piccoli gruppi”.6
In quest'ottica è centrale la vita nella natura che costituisce per i
giovani occasione per mettersi alla prova in attività avventurose per
sviluppare la responsabilità e le capacità decisionali.
Nell’educazione scout si fondono elementi appartenenti a varie
discipline, anche sportive, assieme ad elementi caratteristici come le
attività vissute in piccoli gruppi di minorenni, senza la presenza
costante di adulti, abitualmente vissute all’aria aperta e alcune volte
con compiti, denominati “missioni” o “hike”, in cui i giovani
mettono alla prova le loro capacità.
Elemento unificante di ogni attività scoutistica è, in ogni modo, la
finalità educativa che permea ogni proposta fatta ai giovani.
Ciò brevemente richiamato, iniziano a delinearsi le ragioni per cui
l’attività scout è una proposta educativa che comporta
necessariamente un incremento di rischio.
E’ vero, infatti, che tutte le esperienze di crescita della persona,
anche le più comuni, qualora non si limitino ad aspetti meramente
intellettuali, comportano sempre problemi in ordine alla tutela
dell’integrità fisica dell’educando. Si pensi ad esempio
all’educazione di un bambino, ove il grado di rischio aumenta in
proporzione ai margini di autonomia che i genitori
progressivamente gli riconoscono.7
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5 Le tre associazioni più diffuse sono l'Associazione Guide e Scouts Cattolici
Italiani (AGESCI) e il Corpo Nazionale Giovani Esploratori ed Esploratrici Italiani (CNGEI)
per un totale al 2013 di oltre 200.000 soci.
6
Cfr. Giuseppe dell'Oglio, Alere Flammam. Breve storia dello scautismo in Italia, Lampi di
stampa - 2010, p. 17.
7 L’educazione attraverso l’autonomia dal nucleo familiare originario è indicata, a contrario,
come necessaria anche dalla Corte di Cassazione che ha ritenuto integrare il delitto di cui
all’art. 572 c.p. (maltrattamenti in famiglia) in quelle condotte di ipercura e iperprotezione,
che limitano lo sviluppo integrale della personalità e delle potenzialità dei figli (Sez. IV
Sentenza n. 36503 del 2011).
13
Al contempo è però anche vero che lo scoutismo per le sue
caratteristiche intrinseche comporta un aumento del rischio sia per le
attività che propone, sia per le modalità con cui sono poste in essere.
Sotto il primo profilo si osserva come nell’attività scout gli obiettivi
educativi si raggiungono attraverso esperienze pratiche e metodi attivi,
vissuti nella natura: ambiente privilegiato ove vivere l’avventura.
A ciò si aggiunga che, accanto a dette attività caratteristiche ed esclusive
del metodo scout, si affiancano attività proprie di altri settori quali il
cicloturismo, la speleologia, l’escursionismo, il kaiakismo ecc. che sono
discipline anch’esse, secondo alcuni, per se stesse pericolose.
Sotto il secondo profilo – le peculiari modalità di svolgimento delle
attività – le esperienze proposte sono vissute con ampi spazi di
autonomia dai giovani; la maggior parte delle attività sono spesso vissute
dai ragazzi senza la presenza costante dell’adulto educatore in quanto i
giovani sono chiamati a vivere sotto la propria responsabilità le
avventure propostegli.
Per queste ragioni il metodo educativo scout comporta inevitabilmente,
intrinsecamente, per i partecipanti un incremento del rischio. 8
E’ necessario allora verificare, seguendo la teoria del rischio consentito,
se è permesso dal nostro ordinamento mettere a repentaglio l’incolumità
personale dei partecipanti pur di realizzare le attività scout.
Secondo la teoria del rischio l’ordinamento giuridico permette che beni
giuridici quale, nel caso in esame, l’integrità fisica dei partecipanti,
possano esser messi in gioco, nell’ambito di un bilanciamento di valori,
in conformità a interessi che sono tali per il riconoscimento sociale di cui
godono o in conformità a fonti giuridiche secondarie.
Orbene sotto siffatti profili l’originale agenzia educativa in esame può
controbilanciare il pericolo per la salute dei giovani che vi aderiscono
con altri interessi giuridicamente rilevanti, sia adottando il criterio
dell’adeguatezza sociale che quello giuridico.
Il criterio dell’adeguatezza sociale trova il suo fondamento nel consenso
sociale; l’attività rischiosa deve essere, cioè consentita socialmente, o
almeno generalmente tollerata.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 8 Ciò poiché, come già detto, ci si riferisce qui alle attività tipicamente ed esclusivamente
scout (vita di Squadriglia, missioni o hike, e non a quella parte di attività che costituiscono
attività preparatorie all’avventura, o di contorno alle stesse, che lo scoutismo ha in comune
con tutte le attività giovanili (giochi sul prato o nei campetti parrocchiali, attività teatrali
ecc.).
14
Sotto quest’aspetto lo scoutismo, in oltre cento anni di vita, si è
conquistato il riconoscimento derivante dal fatto di essere il più diffuso
movimento giovanile nel mondo ma anche l’apprezzamento non solo da
parte degli studiosi di pedagogia ma, soprattutto, da parte dei genitori
che continuano, anno dopo anno, ad affidare i loro figli a quest’agenzia
educativa9
.
Il criterio dell’adeguatezza sociale, secondo noti orientamenti dottrinali,
pecca però d’indeterminatezza e ciò a causa del riferimento che fa a
canoni genericamente sociali sciolti da qualsiasi legame normativo tanto
che in tal modo finisce per essere consentito “ciò che viene – anche a
torto- tollerato dalla comunità sociale”.10
Una diversa lettura, invece, aggancia l’area del rischio consentito alle
attività che sono disciplinate e autorizzate dalle competenti autorità; in
dottrina si è osservato che “quando l’attività pericolosa risulta
espressamente autorizzata … dall’autorità competente il ritaglio
dell’area penalmente rilevante trova tracce più sicure” di talché il
bilanciamento d’interessi nasce con evidenza dalla necessità di risolvere
l’antinomia insita nell’ordinamento giuridico.11
Per ciò che concerne anche questo secondo criterio lo scoutismo ha
avuto autorizzazioni da parte dell’autorità e riconoscimenti formali dal
nostro ordinamento sin dal suo inizio quando la prima delle associazioni
scout fu eretta in Ente Morale nel 191612. Oggi anche per l'Associazione
Italiana Guide e Scouts d’Europa vi è un Decreto del Presidente della
Repubblica del 1985.13
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 9 Giova, incidentalmente, rilevare come anche nel caso dell’attività scoutistica, in analogia a
quanto insegna la Suprema Corte in tema di attività sportiva, sussiste un onere dei genitori di
acquisire informazioni prima dell’affiliazione del figlio in quanto il consenso “si ha al
momento della sottoscrizione dell’adesione, ossia al momento del tesseramento col quale si
accetta espressamente e consapevolmente tutte le regole e, dunque, anche quelle che
presidiano la componente di alea insita nella attività prescelta. In linea teorica, può anche
configurarsi, in caso di esiti pregiudizievoli per l'integrità fisica nonostante il rispetto delle
norme regolamentari, una presunzione di preventiva accettazione di quel pregiudizio da parte
dell'atleta infortunato, ove l'accettazione sostanzia non tanto un atto di disponibilità del
proprio corpo, quanto piuttosto consapevolezza e presa d'atto del possibile rischio di danni
alla sua persona in dipendenza di corretta pratica sportiva, nel senso di attività agonistica
correttamente praticata” (Corte di Cassazione, sez. 5 nr. 17923 del 13.2.2009)
10 Fiandaca-Musco op. cit. pag. 404
11 Giustizia penale 2006, O. Custodero, Spunti di riflessione a margine della responsabilità
per colpa, nr. 523.
12Vedi D.L. 21 dicembre 1916 n. 1881, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 2 febbraio
1917 n. 27.
13 Vedi il Decreto del Presidente della Repubblica nr. 240 del 18.3.1985
15
Al di là, comunque, dei due profili sinora esaminati appare
assorbente la circostanza che nello scoutismo l’incremento di
rischio è finalizzato all’educazione della persona e che detta finalità
è costituzionalmente tutelata e favorita.
L’azione educativa, infatti, è attribuita, in primo luogo, dalla
Costituzione alla famiglia (artt. 29 e 31) e alla scuola (art. 33) che
hanno un ruolo decisivo per il pieno sviluppo della persona umana
concorrendo a rimuovere gli ostacoli che impediscono la
partecipazione di tutti all’organizzazione politica, economica e
sociale del Paese secondo quanto auspicato dall’art. 3 della
Costituzione.14
Al contempo vi è nella Carta Costituzionale un esplicito
riconoscimento del fatto che il percorso formativo della persona si
nutre anche dell’apporto di formazioni sociali aggiuntive alle quali
l’individuo partecipa e nelle quali sviluppa la sua personalità. E’ di
tutta evidenza, infatti, che non hanno compiti formativi solo la
famiglia e la scuola ma che esistono una molteplicità di formazioni
sociali intermedie alle quali l’individuo partecipa nel suo divenire.
La Costituzione, agli artt. 18 e 19, dà un pieno riconoscimento
anche a queste formazioni intermedie costituite da associazioni
culturali, politiche, sportive e religiose che contribuiscono a
formare la personalità accrescendo le conoscenze e le esperienze
personali dell’individuo. Vi sono, quindi, una molteplicità di
agenzie educative che hanno come finalità di sostenere l’esercizio
della funzione formativa; ciò da un lato creando forme di sostegno
alla genitorialità e dell’altro rinforzando l’azione delle istituzioni
scolastiche. In particolare nell’ambito di una società pluralista,
quale quella attuale, vi è un composito panorama di agenzie
educative che propongono un’offerta diversa non solo per obiettivi
ma anche per mezzi e strumenti utilizzati.
Ebbene se in Costituzione vi è “un pieno riconoscimento del diritto
all’educazione intesa in senso ampio come percorso formativo che
conduce l’individuo alla pienezza delle sue potenzialità” 15 detto
percorso formativo è affidato anche alle formazioni sociali
intermedie tra le quali rientra pacificamente anche
l’associazionismo scout.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 14 Per approfondimenti vedi Margherita Marzario, Rilettura dell’educazione nella
nostra Costituzione.
15 Emergenza educazione-Costituzione e diritto formativo; a cura di Francesca
Mazzucchelli e Lino Sartori- Franco Angeli pag.20.
16
In conclusione sul punto. E’ allora possibile giungere ad affermare
che anche allo scoutismo è applicabile la categoria giuridica del
rischio consentito; ciò in quanto, se è vero che siamo alla presenza
di un’attività che mette in pericolo l’incolumità fisica dei giovani, è
anche vero che essa ha finalità educativa, che è tutelata e favorita
dalla Costituzione, è socialmente accettata ed ha riconoscimenti da
fonti secondarie dell’ordinamento.
3.
LA MISURA DELLA DILIGENZA RICHIESTA
ALL’ADULTO EDUCATORE
L’accertata coesistenza e concorrenza di più valori richiede, dunque,
un bilanciamento tra gli interessi in gioco; bilanciamento che,
quindi, deve consentire di salvaguardare ambedue gli interessi
senza paralizzare le specificità proprie ed esclusive del metodo
dello scout.
Si deve allora passare, per completare l’esame che costituisce
l’obiettivo di questo scritto, all’individuazione delle condizioni al
ricorrere delle quali è consentito affrontare l’alea del maggior
pericolo che lo scoutismo comporta; condizioni che comportano
l’esenzione da responsabilità anche in caso di eventi negativi ai
soggetti partecipanti.
In altri termini: quali sia la misura della diligenza richiesta
all’adulto educatore nel realizzare le attività scoutistiche per
rimanere nell’area del rischio consentito.
Orbene così posta la questione, essa non può che risolversi, in linea
con il senso del presente lavoro, applicando alla fattispecie in esame,
quella dell’attività scout, i principi enucleati dalla giurisprudenza in
tema di rischio consentito nei delitti colposi.
L’ordinamento ha elaborato, come noto, per tutti i delitti colposi,
l’espediente dell’ ”agente modello” -homo eiusdem conditionis et
professionis- per alludere a un parametro di riferimento che, da un
lato tenga conto delle caratteristiche personali e professionali
dell’agente concreto, e dall’altro, però consenta di pervenire a una
standardizzazione della regola. Questo significa, per riprendere un
esempio frequente della manualistica, che colui il quale si pone alla
guida di un autoveicolo, dovrà essere valutato alla stregua
dell’automobilista modello, anche se non è convenientemente
addestrato e, persino, se non è in possesso della patente di guida.
17
Orbene, siffatti criteri generali si atteggiano, secondo dottrina e
giurisprudenza, in modo differente nel caso delle attività rischiose.
Infatti, in queste, l’evento dannoso appare per definizione
prevedibile, perché altrimenti l’attività non sarebbe definita
rischiosa, e se fossero applicati i criteri generali si giungerebbe a
giudizio di responsabilità in tutti i casi di eventi negativi proprio in
quanto prevedibili “in re ipsa”.
Ciò brevemente richiamato giova qui soffermarsi sul fatto che
dottrina e giurisprudenza pervengono a diverse conclusioni in
ordine ai parametri da utilizzare per individuare la misura della
diligenza nelle attività rischiose.
Parte della dottrina afferma, infatti, che nell’ambito delle attività
rischiose il giudice, nel formulare il giudizio sulla sussistenza della
colpa dovrebbe interpretare i concetti di negligenza e d’imprudenza
con il “grado di elasticità che si rende necessario per far sì che la
prevedibilità, in astratto sempre possibile, della verificazione di
eventi dannosi o pericolosi non impedisca lo svolgimento
dell’attività”.16
La teoria del rischio consentito autorizzerebbe, secondo tali autori,
una delimitazione della misura della diligenza richiesta; la sua
funzione sarebbe, pertanto, quella di restringere l’oggetto del
divieto penale rendendo così possibile l’attività rischiosa.
Siffatta lettura della misura della diligenza nelle attività rischiose
consentite è, però, del tutto disattesa dalla giurisprudenza di
legittimità.
Afferma la Corte Suprema, infatti, che “quando si entra nel campo
del c.d. "rischio consentito" (o si accentua il rischio già presente in
queste attività) l'ordinamento consente di svolgere le attività
pericolose, o di svolgerle secondo modalità pericolose, ma richiede
ulteriori presidi cautelari idonei a evitare (o a diminuire) il rischio
del verificarsi di eventi dannosi (per es. l'ordinamento può
consentire che vengano svolte gare di velocità automobilistiche ma,
ove le autorizzi, richiede ulteriori garanzie a tutela dei piloti, degli
addetti al circuito, degli spettatori; garanzie inimmaginabili
nell'ordinaria circolazione stradale che già costituisce un'attività
pericolosa).E dunque "rischio consentito" (o aggravamento del
"rischio consentito") non significa esonero dall'obbligo di
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 16 I. Caraccioli, Manuale di diritto penale. Parte gen., Padova, 1998,329; R. PettinatiG.P.Volpe,
Omicidio colposo, Padova, 2005, 276 ss.
18
osservanza delle regole di cautela ma semmai rafforzamento di tale
obbligo soprattutto in relazione alla gravità del rischio: solo in
caso di rigorosa osservanza di tali regole il rischio potrà ritenersi
effettivamente "consentito" per quella parte che non può essere
eliminata. Insomma l'osservanza delle regole cautelari esonera da
responsabilità per i rischi prevedibili, ma non prevenibili, solo se
l'agente abbia rigorosamente rispettato non solo le comuni regole
cautelari ma altresì quelle la cui osservanza è resa necessaria dalle
caratteristiche e dalle modalità che aggravano il rischio
richiedendo l'adozione di ulteriori e più rigorose regole
cautelari.”17
Si può, pertanto, affermare che non è possibile per le attività
rischiose consentite utilizzare come termine di raffronto concreto
l’agente modello. Deve, invece, essere accolto in questa sede il più
rigoroso criterio della giurisprudenza secondo cui deve essere
assunto come parametro il soggetto che opera specificamente in
quell’attività che, in quanto tale, è tenuto alla conoscenza non solo
delle norme cautelari generiche ma anche di quelle specifiche
proprie del settore e in quanto tali destinate esclusivamente a chi
esercita tale attività. Siamo quindi in presenza non di un limite alle
cautele ma dell’obbligo di utilizzare una diligenza rafforzata o
meglio qualificata.
In tal senso anche recentemente la Corte di Cassazione: “nelle
attività pericolose consentite, poiché la soglia della punibilità
dell'evento dannoso è più alta di quanto non lo sia rispetto allo
svolgimento di attività comuni, maggiori devono essere la diligenza
e la perizia nel precostituire condizioni idonee a ridurre il rischio
consentito quanto più possibile. Ne consegue che l'impossibilità di
eliminazione del pericolo non può comportare un’attenuazione
dell'obbligo di garanzia, ma deve tradursi in un suo rafforzamento
(Sez. 4, n. 7026 del 15/10/2002 - dep. 13/02/2003, Loi e altri, Rv.
223748)”. 18
4.
CONCLUSIONI
Le attività scoutistiche possono rientrare a pieno titolo tra quelle cui è
applicabile la categoria giuridica del rischio consentito, grazie alla quale
eventi negativi, astrattamente inquadrabili come abbandono di minore,
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 17 Vedi, ancora una volta, Corte di Cassazione, Sez. IV, Sentenza n. 4107 del 2009. 18 Ex plurimis, Corte di Cassazione, Sez. 4, Sentenza n. 4999 del 2014.
19
lesioni o addirittura omicidio colposo, possono non dar luogo a
responsabilità penale in quanto trattasi di attività, accettata socialmente e
comunque autorizzata dall’ordinamento, la cui finalità educativa è
tutelata e favorita dalla Costituzione.
La riconducibilità alla categoria del rischio consentito appare, però,
possibile solo al ricorrere delle condizioni richieste e, cioè, quando
l’attività proposta abbia una finalità educativa, rientri tra quelle
tipicamente scout e infine quando la situazione rischiosa permetta di
pervenire a obiettivi educativi non raggiungibili con attività diverse e
meno rischiose.19
Verificata la sussistenza dei presupposti citati è, altresì, necessario, sotto
il profilo più propriamente colposo, che l’adulto educatore scout abbia
posto in essere non solo le ordinarie regole cautelari ma anche gli ordini
e le discipline di settore e cioè, per quel che qui interessa, i regolamenti,
qualsiasi denominazione essi assumano, emanati dai preposti organi
delle associazioni scout nei quali si prevedono le modalità di
realizzazione delle varie attività scoutistiche.20
Corollario di questo principio e che l’adulto educatore che propone
attività proprie dello scoutismo è tenuto a realizzarle così come le
proporrebbe un educatore adeguatamente formato e preparato; mentre
chi fosse privo di tali abilità e capacità dovrebbe astenersi dall’agire.
Qualora, invece, si ostinasse ad agire dovrebbe sforzarsi di farlo secondo
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 19Vedi a tal proposito Corte di Cassazione, sez. 4, Sentenza n. 4107 del 12/11/2008, secondo
cui il “rischio potrà effettivamente ritenersi consentito solo per quella parte che non può
essere eliminata” se non a fronte della paralisi dell’attività consentita. Da ciò sembra corretto
dedurre che il rischio, se è ineliminabile, deve anche essere assunto secondo il criterio del
rischio minimo necessario ovverosia rispondere al criterio di necessità per il raggiungimento
degli obiettivi. Il rischio consentito quindi è solo quello indispensabile in vista degli effetti
positivi che questo è in grado di generare cioè indispensabile secondo i mezzi tipici dei
principi scoutistici.
20L’hyke è una prova nella quale è affidata una missione a due scout di circa 15 anni con
percorsi impegnativi e realizzazioni tecniche specializzate. Il campo di Squadriglia, invece, è
effettuato da un gruppo di otto ragazzi guidati da un minorenne della durata di 3-4 giorni
senza la presenza di adulti. Orbene quelle descritte sono alcune delle occasioni di crescita
previste e normate dalle associazioni scout perché proprie ed ineliminabili dello scoutismo e
sono attività che solo un adulto educatore formato e specializzato può ben valutare quando
affidare ai ragazzi. E’ evidente, infatti, che sono attività improponibili a giovani che non
abbiano effettuato un percorso di preparazione progressivo attraverso sfide sempre più
impegnative. La regola cautelare di settore è allora, in caso di attività autonome dei minori in
assenza di adulti, il percorso di formazione dei ragazzi poiché solo in tal modo è possibile
limitare la misura del rischio, in virtù degli obiettivi educativi che genitori e Capi-educatori
si ripromettono di raggiungere, e renderlo ragionevolmente consentito.
20
quella misura, a rischio di vedersi imputata l’eventuale conseguenza
lesiva a titolo di colpa, sotto la forma di colpa per assunzione21.
E’, dunque, rilevante non solo il rispetto delle regole del settore ma,
trattandosi di diligenza qualificata, anche il percorso di formazione
compiuto dall’adulto educatore in quanto l’applicazione delle regole di
settore dovrà essere effettuata in concreto utilizzando, come detto, non il
parametro dell’agente modello ma quello del professionista del settore
che è in grado di riconoscere e gestire le situazioni di rischio.
Ciò detto in ordine all’osservanza delle regole cautelari 22 devono
applicarsi, si richiama per mera completezza espositiva, anche nei settori
in cui il rischio è consentito, i principi generali in tema di responsabilità
colposa circa il necessario successivo accertamento in ordine alla
sussistenza del nesso causale in specie con riferimento alla effettiva
idoneità di quella cautela, richiesta dalla normativa di settore, a evitare
l’evento dannoso.
* * * *
Il secondo intervento ha ad oggetto la responsabilità penale del capo scout adulto
nelle attività svolte autonomamente dai ragazzi anche minorenni.
Se prima abbiamo parlato di diligenza che l’adulto deve avere nell’espletamento
delle attività e nel far espletare tali attività ai ragazzi sotto la sua sorveglianza e
vigilanza, ora affronteremo il problema dei rischi che comportano le attività svolte
autonomamente dai ragazzi senza la presenza dell’adulto.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 21 La colpa per assunzione si caratterizza per la violazione di più norme cautelari nell’ambito
della stessa condotta; infatti si manifesta in imperizia (il non svolgere adeguatamente il
compito che ci si è impegnati a realizzare); presuppone una negligenza (ci si assume un
compito che non si è in grado di adempiere); non si è diligenti (nel tenere in considerazione
le proprie condizioni e capacità). E’ in tal senso evidente il caso esaminato dalla Corte di
Cassazione secondo cui sul medico “specializzando incombe l'obbligo della osservanza delle
leges artis; ove egli non sia ancora in grado di affrontare le difficoltà del caso specifico, ha
l'obbligo, piuttosto che mettere a rischio la vita e l'incolumità del paziente, di astenersi dal
direttamente operare. (Cassazione penale , sez. IV, 06 ottobre 1999, n. 2453 Tretti)
22 Per completezza si ricordi come l’imprevedibilità, in senso proprio, concerne il rispetto
delle regole cautelari ed esclude la colpa nei casi in cui non consenta di individuare, sulla
base delle informazioni effettivamente disponibili, una regola cautelare per la bassa
probabilità che l’evento si verifichi. Differente è il fatto eccezionale che concerne, invece, il
nesso causale che risulta escluso quando vi è una probabilità statisticamente minima di
verificazione dell’evento.
21
RESPONSABILITÁ DELL’ADULTO NELLE ATTIVITA’
AUTONOME DEI RAGAZZI
Agostino de Caro
Sommario: 1. Premessa - 2. Il perimetro della riflessione - 3. Segue: le
coordinate giuridiche: dolo e colpa - 4. Segue: l’abbandono di minori e
la sua non configurabilità - 5. Un punto fermo: il valore educativo e
sociale dello scautismo - 6. Le peculiarità del metodo scout - 7. Segue: la
fondamentale importanza dell’autonomia riconosciuta ai ragazzi - 8. Il
valore delle regole specifiche contenute nei regolamenti metodologici
interni e degli statuti - 9. Segue: la declinazione concreta delle modalità
in cui ci compendia l’autonomia dei ragazzi/e - 10. I rischi connessi
all’autonomia - 11. La prevedibilità delle condotte e il
concorso/cooperazione - 12. I limiti della responsabilità dell’adulto nelle
attività autonome dei ragazzi – 13. Conclusioni.
1. Premessa.
Il tema della mia riflessione coinvolge i vari profili connessi alla
responsabilità dell’adulto per fatti che possono verificarsi nel corso delle
attività autonome dei ragazzi e più in particolare gli aspetti di rilievo
penale collegati a fatti illeciti commessi nelle attività autonome o ad
incidenti (intendendo il temine nella sua declinazione di fatto colpevole)
nei quali i ragazzi stessi rimangono vittime. Non è l’unico ambito
problematico della vita scout, ma è sicuramente quello più emblematico
perché riguarda in modo specifico il perimetro del dovere di controllo e
vigilanza (e la sua esatta delimitazione) rispetto all’idea stessa di
consentire – anzi agevolare – attività autonome da parte di ragazzi/e,
soprattutto minorenni, per definizione realizzate senza la partecipazione
degli adulti.
2. Il perimetro della riflessione.
Una premessa indispensabile. Quando parliamo di responsabilità penale
dell’adulto nelle attività alle quali partecipa o in quelle autonome dei
ragazzi non ci riferiamo alla responsabilità dolosa in senso stretto che si
realizza quando l’adulto agisce con la coscienza e la volontà di cagionare
un fatto che costituisce reato per l’ordinamento giuridico italiano: in
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questi casi, infatti, ne risponderà pienamente, a titolo di dolo, secondo le
regole del codice penale. Nessuna eccezione è ipotizzabile né
oggettivamente possibile in funzione della natura e della peculiarità dello
scautismo e nessuna particolarità richiede uno studio specifico.
In tale ottica, quindi, se un adulto compie atti illeciti che integrano un
reato doloso, come, ad esempio e senza pretesa di una elencazione
completa, abuso dei mezzi correzione, maltrattamenti verso fanciulli,
violenza sessuale o induzione alla prostituzione minorile, porto abusivo
di armi, abbandono di rifiuti, reati ambientali, abbandono di minori o
incapaci, danneggiamento, incendio ecc. ne risponderà secondo le
normali regole e sempre che, ovviamente, sussistano e saranno
riscontrati nella sua condotta gli elementi normativi che tipizzano la
relativa fattispecie incriminatrice penale.
Ugualmente, se la sua condotta concorre con quella dei ragazzi
minorenni o con altri adulti ne risponderà a titolo di concorso nel reato
doloso, senza alcuna limitazione. L’adulto può concorrere anche
moralmente con il ragazzo (o con altra persona adulta) ove risulti un suo
contributo concreto in termini di istigazione (fa nascere il proposito
criminoso o concorre alla sua nascita) o di determinazione (lo rafforza).
Siamo, però, al cospetto di un ambito di “normalità penale” che travalica
il ruolo e la funzione dell’educatore e la specificità dello scautismo.
Il problema della peculiarità del metodo scout e delle sue attività si pone,
invece, nelle ipotesi in cui il fatto illecito (anche doloso) è commesso dai
ragazzi nel corso di un’attività autonoma (e si può escludere un concorso
materiale dell’adulto o una istigazione e/o determinazione dello stesso)
ovvero, ed è l’ipotesi più ricorrente, nell’attività stessa si verifica un
fatto colposo con danni a persone o cose che, sul piano giuridico,
coinvolge il dovere di vigilanza e controllo dell’adulto.
In questi casi, infatti, nasce rispettivamente il problema della
responsabilità penale dell’adulto educatore per concorso nel delitto
doloso (fondato sulla omissione di vigilanza e quindi su una sorta di
dovere giuridico di impedire l’evento) o della responsabilità per colpa.
Quest’ultima, in particolare, si riscontra quando l’agente ha agito senza
volere la produzione dell’evento dannoso o pericoloso, ma lo ha
determinato per negligenza, imprudenza, imperizia oppure non
osservando leggi, regolamenti, ordini o discipline espressamente previste.
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3. Segue: le coordinate giuridiche: dolo e colpa.
È interessante, in premessa, comprendere sul piano giuridico le
connotazioni tipiche dei profili sopra richiamati onde delineare il
perimetro della responsabilità dell’adulto educatore scout nelle attività
autonome dei ragazzi.
L’ordinamento penale non si limita a proibire soltanto le condotte
finalisticamente indirizzate alla lesione o alla messa in pericolo dei beni
stessi, ma pretende altresì che qualsiasi condotta sia comunque realizzata
con modalità tali da evitare che ne consegua la lesione o la messa in
pericolo di determinati beni.
Nella previsione di ogni reato colposo è, dunque, implicita la pretesa che
ciascuno dei consociati, nelle innumerevoli circostanze della vita di
relazione in cui si muove ed opera, controlli i decorsi causali connessi ai
suoi comportamenti, di modo che non ne derivi, sia pure come
conseguenza da lui non voluta, danno o pericolo per i beni a cui
l’ordinamento ritiene di assegnare una così intensa protezione.
La violazione di questa generale regola di condotta costituisce il
presupposto per l’imputazione di un evento di danno o di pericolo a
titolo di colpa ed il nucleo di illiceità di qualsiasi reato colposo.
La colpa costituisce, rispetto al dolo, la forma di colpevolezza di più
tardiva acquisizione, meno grave, legislativamente eccezionale e
minoritaria.
La colpa è, al pari del dolo, un atteggiamento antidoveroso e, quindi,
riprovevole della volontà.
L’agente aveva la possibilità ed il dovere di essere cauto ed attento, ma
ha agito con leggerezza: siffatto modo di comportarsi giustifica la
punizione del reato colposo. All’autore, cui si imputa il fatto, si
rimprovera, dunque, di non aver attivato quei poteri di controllo che
doveva e poteva attivare per scongiurare l’evento lesivo.
Il codice, all’art. 43 terzo comma, recita: “Il delitto è colposo, o contro
l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto
dall’agente e si verifica a causa di negligenza, imprudenza o imperizia,
ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”.
Da questa definizione, integrata col disposto del primo comma dell’art.
42 c.p., si desume che, per l’esistenza del reato colposo, occorre
innanzitutto un’azione commessa con coscienza e volontà, in altre parole,
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un atteggiamento attribuibile al volere del soggetto. Si richiede, poi, la
mancanza di quella volontà dell’evento che caratterizza il dolo.
Si ha colpa generica quando il carattere colposo della condotta va
ricondotta a violazione di norme di cautela dettate dalla comune
prudenza ed esperienza.
L’imprudenza è l’avventatezza, l’insufficiente ponderazione ed implica
sempre una scarsa considerazione per gli interessi altrui; la negligenza
esprime un atteggiamento psichico diverso, si tratta della trascuratezza,
della mancanza o deficienza di attenzione oppure di sollecitudine, in tale
ambito va collocata la “colpa per assunzione”, tipica di chi assume un
incarico senza provvedere a munirsi del personale specializzato e dei dati
tecnici necessari a dominare l’opera quando le sue cognizioni e
competenze non siano all’altezza del compito accettato. Per quanto
concerne l’imperizia, è generalmente riconosciuto che, per potersi
parlare di responsabilità colposa, non basta la semplice deficienza di
abilità professionale, occorre un’insufficiente preparazione o
un’inettitudine di cui l’agente, pur essendo consapevole, non abbia
voluto tener conto.
Per affermare che vi è stata negligenza, imprudenza o imperizia è
necessario stabilire preventivamente quale fosse la misura della diligenza
richiesta, stabilita in base alla determinazione della misura della
diligenza necessaria a scongiurare danni o pericoli per i beni tutelati.
Il giudizio di prevedibilità ed evitabilità dell’evento, in altre parole, deve
essere effettuato ex ante in base al parametro oggettivo dell’homo
eiusdem professionis et condicionis: la misura della diligenza, della
perizia e della prudenza dovute sarà quella del modello di agente che
svolga la stessa professione, la stessa attività dell’agente reale. La
prevedibilità dell’evento rende necessaria la esistenza di una regola
cautelare, idonea a prevenire; essa deve avere un carattere modale, deve,
cioè, essere prevista e indicata con precisione la modalità e i mezzi
ritenuti necessari a prevenire il verificarsi dell’evento (Cass. Sez. IV, n.
16761/10).
Nella colpa specifica, invece, l’elemento psicologico è ricondotto
all’inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline, dettate con
specifico riferimento all’ambito di condotta di cui si tratta. Non tutte le
leggi, quindi, ma solo quelle che mirano allo scopo preventivo accennato
possono essere fonte di responsabilità colposa.
L’osservanza delle regole di diligenza deve avere ovviamente la
potenzialità (valutata in concreto) di poter evitare il fatto.
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Non è consentito parlare di colpa se nel caso concreto non può essere
mosso al soggetto il rimprovero di aver trascurato le precauzioni a cui
era tenuto secondo la normale diligenza.
La prevedibilità e l’evitabilità dell’evento costituiscono i criteri di
individuazione delle misure precauzionali da adottare nelle diverse
situazioni concrete giacché il risultato che il soggetto non è in grado di
impedire non gli può essere posto a carico, rappresentando nei suoi
confronti una mera fatalità, esterno alla sua sfera di influenza e di
intervento.
La misura della diligenza richiesta incontra quindi due limiti
fondamentali.
In primo luogo sono oggettivamente imputabili all’autore tutte e solo le
conseguenze obiettivamente prevedibili, quelle cioè prevedibili da un
agente ipotetico che si fosse trovato nella stessa situazione dell’autore:
restano tagliate fuori dalla fattispecie oggettiva dei delitti colposi le
ipotesi di decorso causale abnorme, quindi oggettivamente non
prevedibili; ma si dovrà tener conto, per converso, delle particolari
conoscenze dell’agente concreto, che rendessero da parte sua prevedibile
ciò che oggettivamente sarebbe da considerarsi imprevedibile.
Un secondo limite si ricava dal concetto di rischio consentito, o rischio
socialmente adeguato, espressione con cui si indica quella misura di
rischio, praticamente ineliminabile in molte attività, non rinunciabili
come elemento di sviluppo della vita collettiva.
Con tale espressione si allude al fatto che queste attività, ancorché
pericolose, sono consentite dall’ordinamento per il loro carattere di
indispensabilità o grande utilità nella vita sociale. Solo le condotte che
suscitano pericoli soverchianti rispetto alla misura di questo rischio
socialmente adeguato possono risultare rilevanti per un reato colposo.
Secondo parte della dottrina (Fiandaca-Musco), per la determinazione
dei contenuti specifici del dovere di diligenza giocano un ruolo anche i
principi della divisione del lavoro e dell’affidamento.
Quanto al primo principio, si parla di culpa in eligendo quando sia
violato, da parte di chi riveste un ruolo gerarchicamente sovraordinato,
l’obbligo prudenziale di scegliere in modo appropriato i propri
collaboratori e di controllarne l’operato. Solo a queste condizioni diviene
rilevante il fenomeno della delega e del conseguente trasferimento di
funzioni, che implica, nei congrui casi, anche il trasferimento del dovere
di diligenza e della corrispondente responsabilità colposa.
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In base al principio dell’affidamento, colui che agisce nel rispetto dei
doveri di diligenza oggettiva è legittimato a fare affidamento su un
comportamento egualmente diligente dei terzi, la cui condotta
interferisce con la propria. Tale principio, che fornisce un criterio
risolutivo quando si tratta di stabilire l’esistenza di una responsabilità per
colpa in relazione al fatto di un terzo, sia esso doloso o colposo, subisce
delle eccezioni.
La possibilità di far affidamento sul comportamento diligente di un terzo
viene meno nei casi in cui particolari circostanze lascino presumere che
il terzo medesimo non sia in grado di soddisfare le aspettative dei
consociati. La seconda eccezione si riferisce alle ipotesi in cui l’obbligo
di diligenza si innesta su di una posizione di garanzia nei confronti di un
terzo incapace di provvedere a se stesso.
Una volta accertata in sede di tipicità la violazione del dovere obiettivo
di diligenza, il rimprovero di colpevolezza viene fatto dipendere
dall’accertamento dell’attitudine del soggetto, che ha in concreto agito,
ad uniformare il proprio comportamento alla regola di condotta violata;
tale verifica dovrebbe tener conto del livello individuale di capacità,
esperienza e conoscenza del singolo agente.
L’evento deve rappresentare una conseguenza necessaria non tanto della
semplice azione materiale, quanto piuttosto dell’azione che contrasta col
dovere oggettivo di diligenza. L’evento, in altri termini, deve apparire
come una concretizzazione del rischio che la norma di condotta violata
tendeva a prevenire. L’evento lesivo deve appartenere al tipo di quelli
che la norma di condotta mirava a prevenire, se così non fosse, la
responsabilità colposa si ridurrebbe a mera responsabilità oggettiva
basata sul semplice nesso di causalità materiale.
Per completare il quadro dei concetti giuridici di riferimento non va
dimenticata una ulteriore possibile declinazione del c.d. principio
dell’affidamento, secondo la quale i minori affidati ad un’associazione e
le loro famiglie confidano nella correttezza e competenza di chi assume
una responsabilità di controllo e vigilanza.
4. Segue: l’abbandono di minori e la sua non configurabilità.
Solo per completezza va analizzata anche la fattispecie penale descritta
dall’art. 591 c.p.p. come abbandono di minori e incapaci che si realizza
quando “chiunque” abbandona un minore di anni quattordici (la cui
incapacità di intendere e volere si presume) ovvero una persona incapace
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per malattia del corpo o della mente e della quale abbia la custodia o
debba avere cura.
La fattispecie si riferisce alle persone incapaci o ai minori di anni
quattordici e la relativa condotta di abbandono si concretizza nel
momento in cui il soggetto agente volontariamente lascia, anche solo
temporaneamente, in balia degli eventi la persona di cui dovrebbe curarsi.
La norma punisce qualsiasi azione o omissione contrastante col dovere
giuridico di custodia, idonea a produrre un pericolo, anche solo
potenziale, di una lesione dell’incolumità (Cass. 22.4.2005 n. 15245).
L’elemento psicologico richiesto è il dolo, la coscienza e volontà, cioè,
di abbandonare la persona affidata. In questa prospettiva, deve sussistere
la consapevolezza di abbandonare il soggetto passivo, che non sia capace
di badare a se stesso, in una situazione di pericolo di cui si abbia l’esatta
percezione (Cass. Sez. V. n. 15147/07; Cass. Sez. V, n. 7556/04).
E’ particolarmente interessante una decisione (Cass. Sez. V, n.
11655/12) che ha ritenuto sussistente il delitto di abbandono di minori a
carico di un autista del servizio di trasporto scolastico che abbandono il
minore consentendo che lo stesso scenda dal bus prima del
raggiungimento della struttura scolastica e, pertanto, prima
dell’affidamento al personale scolastico e, a causa delle condizioni
impervie della strada resa precaria dai una recente nevicata, cada a terra
procurandosi lesioni. Nel caso di specie, però, l’autista aveva precise
consegne amministrative violate. Dalla massima non è apprezzabile la
connotazione psicologica e le reali condizioni del fatto nonché l’età del
minore e la distanza dalla scuola. Si deve, però, ritenere che sia
comunque stato dimostrato il dolo generico richiesto dalla norma
incriminatrice.
E’ evidente che la ricorrenza di tale fattispecie è esclusa categoricamente
tutte le volte che manchi tale connotazione psicologica e l’abbandono sia
meramente colposo o dovuto a fatti accidentali. Bisogna distinguere tra
“abbandono”, il cui significato coinvolge condotte di disinteresse nei
confronti del minore, lasciato a se stesso in condizioni di pericolo e tutto
ciò che, pur potendo concretizzare dal punto di vista materiale situazioni
nelle quali il minore si trova ad affrontare da solo un pericolo, non hanno
questa connotazione essenziale ma implicano scelte educative anche forti.
A maggior ragione, dunque, è difficile ritenere ipotizzabile la fattispecie
se il minore partecipa ad un’attività insieme ad altri ragazzi, minori
anch’essi ma coordinati da uno o più ragazzi con più di 14 anni, ove il
controllo è comunque assicurato e la mancanza dell’adulto non è mai un
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“abbandono” ma una precisa modalità prevista dal metodo educativo
applicato.
5. Un punto fermo: il valore educativo e sociale dello scautismo.
Fatte queste necessarie precisazioni, si può entrare nello specifico
argomento a me affidato. Il tema è complesso e non ho alcuna velleità di
trattarlo compiutamente. Mi prefiggo, sperando di riuscirci, solo lo scopo
di individuare alcuni spunti utili a ricostruire in modo compiuto la
traccia indicata. Soprattutto, ed è la premessa che subito metto in campo,
vorrei selezionare, dagli argomenti giuridici tipici sottostanti alla materia
della responsabilità dell’educatore, quelli applicabili allo scautismo,
dividendoli da quelli non utilizzabili perché dissonanti rispetto alle
peculiarità del metodo scout, alle caratteristiche, cioè, che ne fanno un
percorso educativo riconosciuto per la sua positività. In questo senso, i
tradizionali concetti di dovere di vigilanza e di controllo, di obbligo
giuridico di impedire l’evento, di posizione di garanzia, di responsabilità
derivata, di diligenza, prudenza e perizia, devono essere declinati in una
prospettiva che tenga presente il metodo scout, le sue caratteristiche
nucleari dalle quali discendono anche le sue enormi e riconosciute
potenzialità educative.
La riflessione prende spunto da una considerazione di fondo: le attività
scout hanno un particolare valore educativo che le rendono utili allo
sviluppo armonico della personalità dei ragazzi/e che vi partecipano. La
personalità rappresenta il profilo dinamico della persona umana, la sua
evoluzione nell’ambito della quale il momento della formazione svolge
un ruolo nevralgico. Entrambi i profili sono messi al centro del cosmo
giuridico (art. 2 Cost.) dall’ordinamento che, in particolare, riconosce ai
segmenti rientranti nel più ampio genus “sviluppo della personalità” tutti
i diritti fondamentali afferenti alla persona umana e li riferisce anche alle
formazioni sociali intermedie, indispensabili allo sviluppo della
personalità. In questa prospettiva, l’educazione nell’ambito delle
associazioni educative è valutato dalla Costituzione come essenziale per
lo sviluppo armonico della personalità.
La evidente utilità sociale ed educativa delle attività scout e dello
scautismo, condivisa da tutta la scienza pedagogica, consente di valutarle
positivamente e di collocarle all’interno dell’ordinamento giuridico al
pari di altre più studiate attività ugualmente “positive”, come, ad
esempio, lo sport. Un parallelo è, infatti, possibile perché entrambi gli
ambiti contribuiscono allo sviluppo della persona, pur coinvolgendo
aspetti anche molto diversi tra loro. In particolare, lo scautismo è
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innanzitutto un metodo educativo che fa contribuisce alla crescita ed allo
sviluppo della personalità dei ragazzi/e contribuendo alla formazione.
A questa iniziale considerazione – e proprio in conseguenza di essa - si
deve aggiungere che, riconosciuto il valore delle attività scout e la loro
indiscutibile funzione di formazione dei ragazzi/e, è doveroso valutarle e
giudicarle, al pari dello sport, alla luce delle peculiarità intrinseche,
senza poter indiscriminatamente applicare categorie giuridiche
inappropriate e/o valide in altri ambiti.
Un esempio può servire a chiarire il mio pensiero: poiché rappresenta
una peculiarità del pugilato incrociare i guantoni e fare a pugni, ad un
allenatore di giovanissimi pugili non potrà mai essere contestato di avere
consentito a due ragazzi minorenni di partecipare ad un incontro di boxe
in allenamento, se la partecipazione è preceduta da un’adeguata
preparazione ed una eguale esperienza. All’opposto, invece, se un
professore di matematica organizza o consente che due ragazzi
minorenni facciano a pugni, sarà sicuramente responsabile delle
conseguenze che ne derivano.
L’esempio, da prendere per quel che vale, indica una traccia da seguire
nel ragionamento giuridico.
Il tema, più ampiamente sviluppato dalla prima relazione sul rischio
consentito, pone le basi per riconoscere alle attività scout una decisa
peculiarità, che non può rimanere estranea alla valutazione dei
comportamenti dell’adulto rispetto ai comportamenti illeciti dei ragazzi o
dagli eventi lesivi occorsi agli stessi nelle attività autonome.
6. Le peculiarità del metodo scout.
Dall’esame dei documenti ufficiali dei movimenti scout italiani
(AGESCI, FSE, CNGEI) e da una serie di letture (alcune frasi sono
estrapolate da scritti che nel tempo ho letto, meditato e appuntato: mi
scuso in partenza se non riesco a citare la fonte) di scritti sullo scautismo
si può evincere che il metodo scout fonda su alcuni punti fermi assai
rilevanti per comprendere fino in fondo le sue peculiarità e valutarle
correttamente al fine di definire i profili di responsabilità penale
dell’adulto nelle attività autonome dei ragazzi. Lo scautismo, in un
contesto sociale fatto di prevalenza del superfluo e di sfrenato
consumismo, valorizza l’essenzialità come valore, educando a scegliere
ciò che realmente è utile (e vale). Molte attività educano all’essenzialità
(dalle più semplici come preparare lo zaino o il menù, a quelle più
complesse come realizzare costruzioni anche significative con pali e
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cordini, fino a scegliere il servizio utile e non quello che gratifica). In
particolare, per quel che ci riguarda, una “intensa e vera vita all’aperto è
una continua scuola di essenzialità”.
A questa prima considerazione si deve aggiungere la valorizzazione
dello spirito di avventura, indispensabile per offrire ai ragazzi/e un
modello virtuoso di agire (che spesso si contrappone a quelli consueti
come la sopraffazione, il consumismo, lo sterile protagonismo, la
strumentalizzazione della persona, la simulazione, l’alienazione, la fuga
dalla realtà, l’apparire piuttosto che l’essere).
I ragazzi hanno bisogno di vivere l’avventura in modo valido e autentico
per essere aiutati a crescere, devono essere stimolati a “saper rischiare
sul probabile”, a non temere le novità, al senso del proprio limite. La
(strategia dell’) avventura ha una formidabile vocazione educativa,
caratterizza la vita scout in modo concreto, perché consente lo sviluppo
di conoscenze e abilità per crescere e maturare nella competenza e
stimola a “volare in alto” (e vola solo chi osa farlo) per giocare in modo
effettivo il “grande gioco della vita”.
L’avventura richiede lo sviluppo di tutta una serie di componenti
essenziali alla crescita armonica del ragazzo/a: sviluppa il senso positivo
della gioia, l’impegno e la competenza, il sacrificio, il senso dell’altro,
l’accoglienza (solo per citarne alcuni). Essa richiede, però, uno spirito
particolare che non può prescindere da una “dose di spregiudicatezza e
di rischio propria del ragazzo”. Il luogo tipico dell’avventura non è la
propria casa, sicura e ovattata, ma la vita all’aperto, pienamente vissuta,
con competenza responsabilità. E’ orientata verso grandi ideali ed è “una
grande risorsa per gli adolescenti”.
Lo scautismo ritiene essenziali, proprio in questa prospettiva, alcune
attività che consentono lo sviluppo dell’avventura: il campo e le uscite,
gli hikes, le routes, le veglie, il deserto, il gioco. E la tenda, il fuoco, la
strada hanno una specifica proiezione alla realizzazione di meravigliose
avventure. L’avventura, però, non si improvvisa ma si realizza attraverso
percorsi definiti e capaci di cogliere e neutralizzare i pericoli prevedibili.
Un ulteriore profilo educativo caratteristico dello scautismo riguarda la
competenza, sul cui significato e rilievo è serrato il dibattito. Si sostiene
correttamente che la competenza abbia un “valore personale e sociale”.
Lo scautismo valorizza “l’esercizio di competenze per acquisire la
competenza del vivere con e per gli altri”. Il fondatore B.P. sosteneva,
infatti, che lo scautismo è proiettato sul servizio perché “non c’è
scautismo senza servizio”. E’ stato anche sottolineato che “la
competenza è padronanza di conoscenze e abilità che diviene stile di vita,
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modo di interagire con se stessi e con il mondo”. Il metodo scout
consente di sviluppare alcune tecniche tipiche (appunto dello scouting)
che attraverso la maturazione di specifiche competenze (dal costruire un
tavolo al campo alla realizzazione di un’impresa o di una route)
consentono di acquisire valori capacità più ampie e valoriali (come il
senso della progettualità, della comunità, dell’essenzialità, della
disponibilità).
Le tecniche aiutano a risolvere il quotidiano e fanno “interagire mani e
testa”, favorendo l’autonomia e la responsabilità, si sviluppano in attività
concrete ma hanno un orizzonte educativo più ampio (la topografia e
l’orientamento consentono di raggiungere una meta senza perdersi ma,
contemporaneamente, educano a “progettare il cammino della propria
vita” e ad orientarsi nelle scelte). La competenza è proiettata poi sempre
al servizio verso il bene comune ed è, in questa prospettiva, esercizio
autentico di cittadinanza attiva.
Una ulteriore peculiarità dello scautismo è la autoeducazione, secondo la
quale il ragazzo è il principale artefice, anche se non l’unico responsabile,
della propria crescita (cf. Patto associativo Agesci).
7. Segue: la fondamentale importanza dell’autonomia riconosciuta ai
ragazzi.
Tutti questi aspetti educativi (sintetizzati senza alcuna pretesa di
completezza, ma solo nella prospettiva di cogliere una specificità utile
nella definizione dei profili di responsabilità dell’adulto educatore)
hanno una confluenza nel collegato concetto di autonomia del ragazzo,
delle sue scelte e di alcune sue attività, nel cui perimetro (soprattutto in
questo ultimo segmento) si sviluppano molte dinamiche educative
virtuose ma si annidano ovviamente anche alcuni pericoli.
In particolare, l’autonomia non è solo un concetto di genere che descrive
un ambito educativo da sviluppare per approdare alla partenza, al tempo,
cioè, delle scelte o al momento conclusivo dell’esperienza vissuta nel
gruppo scout, ma è anche declinabile come una modalità da proporre ai
ragazzi minorenni per sviluppare la loro formazione concreta ed attuale.
In alcune fasce di età, in particolare, l’autonomia è essenziale ed è
collegata ad attività all’aperto o in sede vissute dal piccolo gruppo (la
squadriglia) senza la presenza di capi adulti.
Lo scautismo senza autonomia di squadriglia non avrebbe alcun senso,
sarebbe ridimensionato di una elevata percentuale e non avrebbe quel
fascino e quella capacità educativa che gli viene riconosciuta. Insomma,
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per quel che mi interessa in questo ragionamento, essa rappresenta una
peculiarità del metodo scout senza la quale lo stesso non avrebbe valore
o ne avrebbe uno decisamente inferiore.
Il concetto di autonomia ha un riverbero anche nella individuazione delle
attività concrete che compongono lo strumentario dello scautismo.
Alcune sono, per definizione e per coerenza metodologica, svolte senza
la presenza degli adulti, in piena autonomia da parte dei ragazzi.
Rientrano in questo ambito molteplici attività: per essere concreti ne
individuo due, tra le tante: quelle poste in essere, nella branca
esploratori/guide, dalle squadriglie (piccoli gruppi di ragazzi,
monosessuali organizzati verticalmente e diretti da un caposquadriglia)
in sede o fuori dalla sede, all’aperto anche con pernottamento; gli hike,
realizzati, soprattutto nella branca rover/scolte ma, per i ragazzi più
grandi, anche in quella inferiore (E/G) ove i soci sono essenzialmente
minorenni.
Sono attività dallo spessore educativo elevato, nelle quali i ragazzi
vivono l’esperienza senza la presenza degli adulti e sono previste in
modo specifico dalle norme che regolano il metodo scout e che
costituiscono i riferimenti normativi ai quali i capi devono ispirarsi
nell’esercizio del loro mandato educativo.
8. Il valore delle regole specifiche contenute nei regolamenti
metodologici interni e degli statuti.
I dirigenti di qualsiasi associazione sono vincolati, nello svolgimento
delle loro funzioni e dei loro compiti, a due tipi di norme, interconnesse,
anche funzionalmente, tra loro: lo Statuto e il regolamento
dell’associazione (e più in generale le regole interne o anche i protocolli
adottati) e le Leggi dello Stato.
I Capi scout, in particolare, sono tenuti ad osservare sia le norme interne
e i fondamenti del metodo Scout in esse contenuti sia le leggi vigenti
nello Stato italiano (e quando si va all’estero anche in quello che ci
accoglie). In particolare, esistono due profili degni di nota: per un verso,
si sostiene correttamente che le prime riguardano “il rapporto interno (il
rapporto, cioè, che lega gli associati tra loro)”, mentre le seconde
riguardano “il rapporto esterno all'associazione (con i genitori dei
ragazzi, con i proprietari dei terreni da campo, coi fornitori, con la
pubblica amministrazione, con i terzi in genere che eventualmente
entrano in contatto attraverso le nostre attività, ecc.)” (U. Ronci, La
responsabilità legale del capo, in Organizascout).
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In una diversa ottica, va anche sottolineato come le norme interne, in
mancanza di discipline legislative specifiche contrarie, rappresentino
disposizioni di settore vincolanti, alle quali gli adulti devono attenersi e
applicare con lo scrupolo tipico dell’educatore che tiene a cuore
soprattutto il bene dei ragazzi: la diligenza del capo deve ispirarsi a
questo doppio fronte.
Il valore delle regole di settore (quelle interne, condivise da tutti i soci e
costruite negli anni dal dibattito e dallo sviluppo dello specifico
segmento metodologico) è indiscutibile dal momento che esse
costituiscono “le norme di disciplina” da seguire nelle attività e la loro
applicazione al ragionamento sulla responsabilità dell’adulto è essenziale
per individuare i punti di riferimento e le coordinate giuridiche onde
poter valutare poi una specifica condotta.
Esse dunque non riguardano solo i rapporti interni al gruppo,
all’associazione, ma dimensionano i doveri, i poteri, le facoltà e i
modelli di comportamento cui far riferimento per stabilire se una data
condotta è lecita o illecita.
Quando si parla di regole di settore, ci si deve riferire anche a tutte
quelle regole che riguardano ambiti specifici con i quali si entra in
contatto (codice della strada, regole della montagna ecc.) e che non
vanno svalutate, avendo, anch’esse, un ruolo essenziale nella valutazione
delle condotte dell’adulto.
I regolamenti metodologici, gli statuti sono ovviamente i riferimenti
interni principali anche per definire il c.d. rischio consentito.
Per comprendere bene i concetti va sottolineato che non è il rischio in sé
a definire la liceità o illiceità dell’attività e della condotta dell’adulto
responsabile dell’unità di cui fanno parte i ragazzi che la realizzano in
autonomia, quanto piuttosto la sua validità educativa (controllata
attraverso la coerenza con il metodo scout) e la sua non eccentricità
rispetti alle norme giuridiche; sul piano concreto, poi, si deve valutare
anche la preparazione dell’attività stessa e dei ragazzi che vi partecipano.
Peraltro queste connotazioni declinano, in buona sostanza, nulla di più di
ciò che un buon educatore deve sempre fare nell’interesse dei ragazzi, a
prescindere dalla realizzazione di eventi lesivi o dannosi, per contribuire
alla crescita ed allo sviluppo dei ragazzi allo stesso affidati.
Inoltre, prevedono espressamente la realizzazione di talune attività che,
per il fatto di svolgersi senza la presenza dell’adulto, hanno una
rischiosità intrinseca maggiore, ma ciò nonostante vengono ritenute
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degne di essere proposte ai ragazzi/e e addirittura essenziali per
l’attuazione del metodo scout.
Un’attività mal organizzata può produrre un danno educativo che
prescinde totalmente da eventi lesivi anche se rappresenta ciò che
l’educatore deve evitare.
La espressa previsione e la collocazione in un’area di particolare valore
educativo conferisce, peraltro, a queste esperienza un carattere tale da
farle ritenere essenziali allo scautismo e, quindi, di tale rilevanza da
imporre la loro realizzazione.
D’altronde, come sempre, il buon senso fa ritenere che il problema non
sia l’attività in sé ma piuttosto come essa viene preparata e vissuta.
9. Segue: la declinazione concreta delle modalità in cui ci compendia
l’autonomia dei ragazzi/e.
Dal regolamento metodologico AGESCI (aggiornato al 2014) si ricavano
alcuni elementi indicativi di come viene intesa e declinata l’autonomia
dei ragazzi/e nelle attività. Inizierei con la squadriglia che, all’art. 11,
viene così definita:
La squadriglia è la struttura fondamentale del reparto e offre ai ragazzi
e alle ragazze, in età esploratori e guide, un’esperienza primaria di
gruppo. È composta da sei - sette ragazzi o ragazze di tutte le età ed è
monosessuale. Tale caratteristica di verticalità aiuta gli esploratori e le
guide, attraverso il trapasso delle nozioni, a raggiungere maggiore
sicurezza in se stessi e ad aprirsi agli altri: ciò grazie al clima di fiducia
e allo stimolo alla corresponsabilità, dinamica educativa peculiare di
questa piccola comunità.
La verticalità all’interno della Squadriglia consente inoltre di offrire a
più ragazzi e ragazze la possibilità di vivere l’esperienza di
Caposquadriglia.
Ogni squadriglia vive una reale autonomia utilizzando materiale,
denaro e un angolo proprio; realizza, in spirito d’avventura e con lo
stile del gioco, imprese ideate dai ragazzi stessi. La vita di squadriglia
prevede oltre alla riunione settimanale frequenti uscite tendenzialmente
mensili, se possibile con pernottamento, che offrono occasioni per
vivere e sperimentare in modo sistematico l’autonomia.
La squadriglia è uno dei luoghi privilegiati in cui ogni E/G può vivere e
concretizzare il proprio Sentiero.
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Un ulteriore elemento indicativo e il successivo art. 13 che delinea il
ruolo e la funzione del capo squadriglia: Ogni squadriglia viene animata
da un Caposquadriglia scelto dallo Staff di Reparto, sentito il Consiglio
Capi, tra gli esploratori e le guide in cammino verso la Tappa della
Responsabilità, in base alle esigenze della squadriglia. Tale ruolo è una
notevole esperienza di crescita e di responsabilizzazione dei più grandi
del reparto…….
Il capo squadriglia è il ragazzo/a (tendenzialmente) di circa 15 anni che
guida la squadriglia ed è responsabile della stessa.
Il successivo art. 16 poi disciplina le uscite e le missioni di squadriglia
chiarendone l’importanza con queste parole: Le uscite di squadriglia
consentono una progressiva conquista di autonomia e di responsabilità
da parte dei ragazzi e delle ragazze.
Le uscite di squadriglia con pernottamento sono parte essenziale del
metodo scout: la progressiva conquista di autonomia e di responsabilità
da parte dei ragazzi e delle ragazze porta a occasioni in cui essi
vengono messi alla prova, specie i più grandi, sperimentando sia la
capacità di organizzazione, sia le competenze e lo spirito con cui viene
vissuto lo scautismo senza la presenza dei capi. Pertanto, le eventuali
difficoltà incontrate non giustificano la rinuncia a esse.
La missione di squadriglia è un’uscita in cui gli obiettivi e le tecniche
per raggiungerli vengono indicati dai capi. Essa costituisce occasione
privilegiata per gli E/G di vivere concretamente consentono una
progressiva conquista di autonomia e di responsabilità da parte dei
ragazzi e delle ragazze.
Qualche altro esempio di previsione specifica di attività realizzate senza
la presenza dei capi per previsione espressa del regolamento
metodologico la ritroviamo nell’art. 25 (sempre del regolamento
metodologico AGESCI) che, riferendosi alla branca R/S (composta da
ragazzi/e dai 16 ai 19/20 anni) regolamenta l’esperienza dell’hike
definendolo come: un momento di avventura irrinunciabile nel percorso
in Branca R/S, vissuto dai rover e dalle scolte che da soli partono per
una breve route. Esso è un’occasione significativa per apprezzare il
dono di un tempo per riflettere con se stessi e pregare individualmente,
dominare le proprie paure……………….
Viene vissuto in uno stile di
severa essenzialità, sperimentando la dimensione di povertà. L’hike è un
prezioso momento di vita interiore, occasione per riflettere sul proprio
Punto della strada, per offrirne poi il risultato al confronto con i Capi o
con la comunità.
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Il tipo di hike, la sua durata e la meta da raggiungere sono commisurati
al percorso del ragazzo nella sua progressione personale. Particolari
esigenze della comunità, delle persone o delle situazioni possono
consigliare che tale esperienza venga effettuata a coppie,
conservandone lo spirito……
L’esperienza dell’Hike non è, però, prevista solo per i ragazzi più grandi
in età R/S (prevalentemente maggiorenni) in quanto l’art. 28 del
regolamento AGESCI la indica come un’attività fondamentale anche per
i ragazzi più grandi in età E/G (sicuramente minorenni): l’hike viene
proposto ai ragazzi e alle ragazze nel cammino tra la tappa della
competenza e quella della responsabilità. Da soli o a coppie
monosessuate, gli esploratori e le guide potranno così affrontare in un
clima di avventura e di contatto stretto con l’ambiente un’occasione che
richiede loro responsabilità, autonomia, competenza, silenzio,
riflessione e preghiera. L’hike consente di ricapitolare il sentiero
percorso, maturare spunti di crescita personali, per la squadriglia e il
reparto relativamente alla tappa in cui si è in cammino.
Anche se l’hike è vissuto a coppie, deve riservare uno spazio adeguato
ai momenti personali.
A questo elenco si potrebbe aggiungere il Challenge, previsto dall’art. 27
e declinato come una tipica attività fisica e tecnica che si realizza,
solitamente, a coppie.
Nel regolamento metodologico delle guide FSE (Federazione scout
d’Europa) del 2012 si richiama l’autonomia di squadriglia e si
specificano le attività in autonomia che il piccolo gruppo deve realizzare:
L’uscita è il momento in cui si mettono in pratica le tecniche e tutto ciò
che si è imparato nelle attività; è questa l’occasione per realizzare tutto
quello che non è possibile fare all’interno di una sede…… e si deve
realizzare almeno due volte in un anno. Può di ogni singola Guida
rispettando le condizioni di sicurezza.
Questo regolamento ha una specificità perché entra anche nei particolari
rispetto alle regole di sicurezza da rispettare nella scelta, ad esempio, del
posto, che deve essere: Sicuro, con la possibilità di appoggio a una
struttura in caso di emergenza. Idoneo all’attuazione dell’uscita.
Conosciuto dalla Capo Squadriglia, dalla Vice e dalla logista che
avranno fatto almeno un sopralluogo; anche la Capo Riparto dovrà
essere ben informata sul luogo dell’uscita.
Ulteriori dettagli cono previsti dallo stesso regolamento per quanto
riguarda le modalità di organizzazione dei campi di squadriglia (della
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durata di più giorni): Deve prevedere soltanto attività scout, quindi
coperte da assicurazione. Viene calibrato sulle reali capacità tecniche
della Squadriglia. È preparato dalla Capo Squadriglia assieme alla Vice
dopo aver sentito il Consiglio di Deve prevedere soltanto attività scout,
quindi coperte da assicurazione. Viene calibrato sulle reali capacità
tecniche della Squadriglia. È preparato dalla Capo Squadriglia assieme
alla Vice dopo aver sentito il Consiglio di Squadriglia. Viene presentato
in Consiglio Capi e approvato dalla Capo Riparto.
Sono previste anche ulteriori cose: Permesso del proprietario del posto
in cui si effettua il campo. Autorizzazioni necessarie per accensione
fuochi, abbattimento alberi, ecc. Avviso al comune e ai carabinieri.
Informare i genitori su date e luogo del campo. Autorizzazione dei
genitori affinché la figlia possa partecipare.
In relazione alla scelta dei luoghi si richiede che il luogo dovrà essere:
Sicuro, con la possibilità di appoggio a una struttura in caso di
emergenza. Idoneo all’attuazione del programma. Conosciuto dalla
Capo Squadriglia, dalla Vice e dalla logista che avranno fatto uno o più
sopralluoghi. Conosciuto dalla Capo Riparto che vi avrà fatto un
sopralluogo assieme alla Capo Squadriglia.
Anche dal regolamento degli esploratori dell’FSE (del 2006) si ricava un
richiamo forte all’autonomia del piccolo gruppo di ragazzi minori: La
vita di Squadriglia sarà tanto più avventura quanto impegnata in attività
forti, frequenti e capaci di far sognare. Perché questo accada la
Squadriglia: si riunirà in Consiglio almeno una volta ogni due mesi;
effettuerà una Riunione ogni settimana; realizzerà uscite, missioni,
imprese e, quando possibile, il Campo di Squadriglia. O con ancora
maggiore decisione: La Squadriglia è l’unità operante della branca
esploratori: è quindi unità autonoma, con le sue riunioni, le sue attività,
i suoi posti d'azione, i suoi incarichi: essa esiste per una azione
d'insieme. L’autonomia reale della Squadriglia durante tutte le sue
attività è un aspetto imprescindibile ed unico della proposta pedagogica
del metodo scout. La vita scout di un esploratore è quasi per intero vita
di Squadriglia: riunioni, uscite, imprese, missioni, campi, servizio.
Questi esempi dimostrano come le specifiche regole di settore prevedano
attività autonome svolte dai ragazzi anche minorenni ed anzi le
qualifichino come attività essenziali allo sviluppo armonico della
personalità, funzionali alla crescita, comunque indispensabili per vivere
appieno la proposta scout in modo adeguato. E dimostrano pure come, in
taluni casi (ciò accade soprattutto nel regolamento delle guide FSE),
vengono anche specificate le regole di condotta da tenere e da richiedere
ai ragazzi minori nella organizzazione concreta delle attività.
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10. I rischi connessi all’autonomia.
Per entrare più nello specifico, bisogna anche considerare che l’attività
autonoma, senza la presenza dell’adulto, è per definizione più rischiosa
anche perché meno controllabile nella fase di realizzazione (che è la fase
più esposta).
Ciò ovviamente non può significare che essa produce naturalmente
situazioni dalle quali possono derivare responsabilità penali. Anzi,
normalmente ci troviamo di fronte a rischi assolutamente leciti e
completamente e incondizionatamente consentiti.
A ciò si deve aggiungere che deve esistere un profilo di rimproverabilità
a carico dell’adulto per una azione o omissione capace di integrare il
profilo colposo richiesto.
La valenza educativa dell’attività autonoma consente di riconoscerla e
quindi consentirla, ma non può, però, costituire un alibi per l’adulto
rispetto ai doveri di controllo e di vigilanza, che si dovranno declinare
ovviamente in modo peculiare rispetto ai normali canoni.
In particolare, è sempre compito dell’adulto educatore conoscere i luoghi
ove l’attività si svolge e i suoi contenuti onde poter controllare circa la
predisposizione di tutto ciò che è neutralizzare i prevedibili rischi.
E’ sempre compito dell’adulto controllare l’organizzazione dei piccoli
gruppi in modo che sia assicurata competenza e responsabilità. I ragazzi
devono, cioè, essere competenti (aver, cioè, seguito specifici percorsi di
competenza nei settori coinvolti nell’attività) e dimostrare responsabilità
nella gestione dell’attività, soprattutto da parte del capo squadriglia.
In questo ambito la prospettiva da considerare è peculiare: nello
scautismo, anche un ragazzo di 15 anni può essere definito competente e
ritenuto capace di guidare un gruppo di ragazzi più piccoli in un’attività
all’aperto anche di più giorni. Ciò che, in un ambito comune può
sembrare azzardato, secondo il metodo scout rappresenta una
ineguagliabile risorsa educativa da usare sempre e da far sperimentare
possibilmente ad ogni ragazzo nel suo percorso di crescita.
La competenza e la responsabilità sono il frutto dell’esperienza maturata,
della psicologia del singolo ragazzo e delle attività tecniche alle quali ha
partecipato. L’essere minorenne non esclude, dunque, una definizione in
chiave di competenza e di responsabilità che possa giustificare la sua
partecipazione, in qualità di responsabile, all’attività autonoma. Tutte le
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disposizioni metodologiche scout (di cui si chiede la corretta
applicazione) consentono, all’unisono, di stabilire che è proprio quella
l’età nella quale si assumono, per definizione metodologica, i ruoli di
capo o vice capo squadriglia (responsabili di un gruppo di 6/7 ragazzi
più piccoli) dotati di una valenza educativa essenziale alla progressione
della crescita del ragazzo/a.
Ugualmente, gli hike (attività che si realizzano generalmente da soli o in
coppia) hanno una funzione educativa insostituibile, pur se richiedono un
particolare impegno da parte degli adulti nella loro organizzazione posta
la peculiare rischiosità dell’evento.
I fattori di rischio, se conosciuti possono essere facilmente neutralizzati,
attraverso una efficiente organizzazione e la scelta di posti tranquilli.
E’ compito dell’adulto, poi, sorvegliare sui materiali utilizzati e sul loro
stato di manutenzione; cosi come è computo dell’adulto indicare con
precisione le cose da non fare (uso di armi, accensione di fuochi in
luoghi in cui è vietato ovvero senza l’osservanza della buona tecnica,
campeggiare o fare costruzioni in zone a rischio frane o alluvioni).
Gli esempi non sono esaustivi e riguardano, in sintesi, la diligenza media
del settore, da utilizzare nel doveroso controllo della organizzazione
dell’attività autonoma dei ragazzi. La realizzazione di questa condotta
consente di escludere ogni ipotesi di responsabilità dell’adulto per tutto
ciò che può verificarsi in un’attività realizzata dai soli minori.
Ci sarà sempre una rischiosità di fondo, per certi versi connaturata al
fatto stesso di andare all’aperto, in montagna, ma essa non genera
responsabilità se sono state rispettate le regole di settore (cioè, il metodo
e le sue prerogative minime).
11. La prevedibilità delle condotte e il concorso/cooperazione.
La responsabilità dell’adulto, poi, non può estendersi alle condotte
imprevedibili, secondo la diligenza e la prevedibilità media, poste in
essere al di fuori di ogni previsione, di ogni specificità dell’attività che si
sta realizzando, ma in modo arbitrario, dai ragazzi.
In questi casi, la valutazione deve avere come riferimento anche il grado
di responsabilità del ragazzo che svolge il ruolo, ad esempio, di capo
squadriglia. Non vale, cioè, l’essere investito del ruolo ma è necessario
anche rivestirlo con una particolare competenza e responsabilità che solo
il capo di riferimento conosce e valuta. Anche la maturità del ragazzo
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conta e probabilmente essere capo squadriglia a 15 anni non è la stessa
cosa di esserlo a 14.
I profili di responsabilità devono essere perimetrati all’interno del ruolo
svolto dal capo educatore e non si estendono ai soggetti che con lui
collaborano (gli aiuto capo) o che hanno un ruolo di vertice del gruppo
(il capo gruppo). La responsabilità penale, infatti, a differenza da quella
civile, non può essere oggettiva, dovendo avere connotazioni soggettive
puntuali. Ciò implica che risponde chi ha lo specifico dovere di vigilanza
e svolge il ruolo effettivo e non tutti i soggetti che con lui collaborano o
che hanno la responsabilità legale del gruppo.
La responsabilità di equipe, tipica di alcune forme di colpa medica, non
può trovare riscontro nel nostro specifico settore caratterizzato da
comportamenti individuali essenziali per la buona riuscita della relazione
educativa.
Naturalmente, l’impostazione ha carattere volutamente generale e sarà
riscontrabile nel caso singolo sempre che l’aiuto non abbia ricevuto
deleghe espresse o assunto comportamenti collegati causalmente al fatto
che genera responsabilità penale.
12. I limiti della responsabilità dell’adulto nelle attività autonome
dei ragazzi.
Facendo ora qualche considerazione di sintesi, si può affermare come da
tutti gli elementi analizzati emerge che far vivere attività autonome,
senza la presenza degli adulti, non solo è previsto dalla specifiche regole
di settore ma è anche essenziale alla piena realizzazione del metodo
scout. Giova ribadire la massima che può ricavarsi dalla lettura dei
documenti delle varie associazioni: senza l’autonomia di squadriglia lo
scautismo avrebbe una differente collocazione ed una diversa
connotazione educativa.
L’adulto, però, non può (ovviamente) disinteressarsi delle modalità e dei
contenuti delle attività autonome dei ragazzi, conservando un dovere di
controllo, connaturato sul piano educativo e naturalmente anche
giuridico, al suo ruolo di educatore ed alla relazione che ha con i ragazzi
allo stesso affidati. Ovviamente, nei confronti dei minori il dovere è
amplificato.
La sua collocazione peculiare consente, infatti, di riconoscere un dovere
di controllo e vigilanza che si declina in alcuni comportamenti dovuti,
che ove realizzati neutralizzano eventuali profili di responsabilità penale
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colposa e anche dolosa (sempre nella prospettiva connessa al dovere di
controllo e vigilanza). Si può tentare una sintesi, senza alcuna pretesa di
esaustività: 1. conoscere luoghi, contenuti e materiali che saranno
utilizzati dai ragazzi/e; 2. essere consapevole della concreto livello di
preparazione tecnica (competenza) e di responsabilità dei ragazzi/e (e
soprattutto del capo squadriglia, nelle attività di squadriglia) e
dell’adeguatezza rispetto ai contenuti ed alle difficoltà dell’attività che si
andrà a realizzare; 3. predisporre e curare la competenza dei propri
ragazzi; 4. mappare i rischi prevedibili connessi all’attività e verificare
che siano messe in atto tutte le misure atte a prevenirli ed evitarli.
Queste piccole, ma fondamentali, cose (peraltro, assolutamente naturali
per un educatore che tiene “al bene” dei propri ragazzi) consentono di
neutralizzare le proprie responsabilità non solo per i fatti imprevedibili,
cioè non rientranti nella previsione dell’homo medio e dell’id quod
plerumque accidit, ma anche per i fatti prevedibili se viene realizzato
tutto ciò che la tecnica, correttamente applicata, richiede.
Non va, infatti, dimenticato che ogni responsabilità giuridica, soprattutto
penale, deve fondare su una rimproverabilità oggettiva e soggettiva, da
muovere nei confronti dell’agente. Il rimprovero deve essere ancorato a
negligenza, imprudenza, imperizia o inosservanza di leggi, discipline o
regolamenti, deve cioè avere una connotazione specifica e consistere in
una azione od omissione collegata all’evento dannoso o pericoloso e in
un coinvolgimento della sfera psicologica nella prospettiva sottolineata.
Se un adulto educatore agisce rispettando le norme di settore e quelle
giuridiche e mette in pratica i comportamenti virtuosi descritti, soddisfa
certamente la condotta legale richiesta e soddisfa soprattutto il dovere di
controllo e vigilanza naturalmente dovuti nei confronti di ragazzi
minorenni.
Il punto di riferimento per il giudice deve essere sempre la norma interna
(lo Statuto, il regolamento) e la sua corretta applicazione. Sotto questo
profilo, lo sforzo di individuare modelli di comportamento da parte delle
strutture associative può aiutare il singolo educatore a regolarsi ad
assumere sempre condotte ispirate alla prudenza e diligenza necessarie.
La naturale interferenza delle attività con le discipline specifiche dei
settori che si vanno a coinvolgere, impone di rispettare le specifiche fonti
normative che le regolano. Se si decide, ad esempio, di realizzare una
attività in bicicletta, l’educatore dovrà curarsi di verificare che i ragazzi
conoscono quelle regole del codice della strada da rispettare.
Ugualmente, per quanto riguarda lo smaltimento dei rifiuti, l’accensione
dei fuochi (che vanno sempre autorizzati e controllati), le escursioni in
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alta montagna con difficoltà superiori alla media per le quali vanno
sempre rispettate le regole di settore, uguali per tutti coloro che
intendono vivere una esperienza simile.
13. Conclusioni.
La conclusione e il richiamo alle regole di prudenza e diligenza
specifiche non deve spaventare l’adulto impegnato nel servizio educativo,
anche perché, in fondo, essa valorizza, sul piano giuridico, ciò che
normalmente si fa e ciò che rappresenta lo strumentario tipico di ogni
educatore scout nell’approccio alle attività autonome dei ragazzi allo
stesso affidati.
Deve, però, richiamare al senso di profonda responsabilità che
l’educatore si assume nei confronti dei propri ragazzi e dei genitori che li
affidano.
Penso che il senso profondo della relazione educativa che lega ragazzo e
adulto sia sintetizzabile nel “voler bene” ai propri ragazzi, con una
fondamentale declinazione nel “volere il bene” degli stessi, puntando a
realizzare ciò che lo determina attraverso modalità attuative corrette,
ispirate a diligenza e prudenza.
In questo perimetro, possono svilupparsi tranquillamente tutti i percorsi
educativi utili a realizzare l’avventura e l’autonomia attraverso le quali
lo scautismo ha contribuito alla crescita di milioni di ragazzi in tutto il
mondo.
****
Il terzo intervento affronta la tematica che sicuramente sta a cuore del Club Alpino
Italiano e non solo. Argomento del prossimo intervento infatti sono i profili penali
dell’accompagnamento in montagna da parte del capo Scout. Analizzeremo le
responsabilità sotto il profilo penale che si possono configurare in capo
all’accompagnatore capo scout che conduce i suoi ragazzi in montagna.
Come abbiamo già ampiamente detto, la frequentazione della montagna implica
un’assunzione del rischio che in parte è gestibile in parte no ovvero non ci si può
sottrarre e ciò anche in considerazione della connotazione morfologica
dell’ambiente montano stesso.
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L’ACCOMPAGNAMENTO IN MONTAGNA DA PARTE DEL
CAPO SCOUT: PROFILI PENALI
PREMESSE
Il Club Alpino Italiano, da ormai 150 anni, provvede, per vocazione e
istituzionalmente, a diffondere la frequentazione della montagna; ad organizzare
iniziative alpinistiche, escursionistiche e speleologiche; a gestire i relativi corsi di
addestramento e formare gli istruttori e gli accompagnatori necessari allo
svolgimento delle predette attività.
Promuove, inoltre, attività scientifiche e didattiche per la conoscenza di ogni aspetto
montano ed ogni iniziativa idonea alla sua protezione e valorizzazione.
Tale frequentazione deve avvenire con rispetto e consapevolezza.
Rispetto sia per quanto attiene gli aspetti naturalistici ed ambientali o verso le
popolazioni residenti, sia come corretta modalità di avvicinamento e di rapporto,
fatta di prudenza e di umiltà, volte a far cogliere una dimensione in cui ciascuno
possa effettivamente esprimere la propria personalità, nella ricerca del silenzio e del
sublime o di momenti di condivisione e socializzazione o, ancora, come accade nel
mondo degli Scout o nell’Alpinismo Giovanile CAI, in un’ottica di “educazione
attraverso l’avventura”.
Consapevolezza intesa come saper cogliere le bellezze che rendono unici i paesaggi e
l’ambiente montano, ma anche come piena coscienza dei pericoli oggettivamente
presenti, e talvolta imprevedibili, che vi si nascondono e che, se da un lato appagano
il desiderio di avventura, dall’altro non possono mai essere totalmente eliminati e,
quindi, ignorati.
Parlare, quindi, di “sicurezza” con riferimento ad attività da svolgere in montagna
può, al massimo indicare il traguardo cui tendere nelle modalità di azione, nella
scelta di itinerari e materiali, nell’approfondimento delle tecniche, ma sempre
considerando un margine di rischio oggettivamente imponderabile.
In tale contesto sia il CAI, nei propri ambiti a valenza educativa, sia le Associazioni
Scout sono chiamati a confrontarsi con la posizione che vengono ad assumere gli
Educatori rispetto agli Educandi quando l’attività si svolge in montagna,
individuandone ruolo e funzioni ed i connessi eventuali profili di responsabilità.
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E non è secondario cercare di inquadrare altrettanto correttamente la posizione degli
educandi, in una prospettiva coerente con i valori e le finalità sottese all’attività da
svolgere, cui non è certamente estranea la sollecitazione ad una crescente
autoresponsabilità.
2. RUOLO E FUNZIONI DEL CAPO SCOUT
E’ noto che la meritoria attività del movimento Scout è finalizzata alla educazione
dei giovani mediante lo sviluppo delle proprie attitudini fisiche, morali, sociali e
spirituali ed il metodo educativo connesso si basa “sull’imparare facendo” attraverso
attività all’aria aperta ed in piccoli gruppi – come ben puntualizzato nella relazione
del Dott. Colaiocco – e tale attività si svolge spesso, se non prevalentemente,
attraverso l’escursionismo ed in ambiente classificabile come montano.
Al Capo Scout il gruppo viene affidato dai responsabili delle Associazioni nel
momento della nomina e attribuzione della qualifica/incarico e, ad un tempo, dai
genitori dei ragazzi e delle ragazze che ne fanno parte.
Ora, se pure è innegabile che la finalità principale che le une e gli altri intendono
raggiungere mediante tale affidamento sia quella di favorire lo sviluppo fisico,
sociale e spirituale dei ragazzi, sollecitandone la personale crescita, quasi
un’autoeducazione, altrettanto indubitabile è la circostanza che il Capo Scout assuma,
rispetto all’attività da svolgersi in montagna o in ambiente che comunque presenti
difficoltà o pericoli, anche il ruolo e le funzione dell’accompagnatore nel senso che
di seguito cercherò di puntualizzare.
Il che trova conferma nella casistica degli incidenti accaduti durante attività
scoutistiche, rispetto ai quali la ricerca di eventuali profili di responsabilità è stata
rivolta de plano nei confronti del o dei Capi Scout.
Ne discendono due importanti considerazioni:
a) che l’essere i Capi Scout operatori di stretto volontariato e mossi da finalità
ideali non esclude una possibile responsabilità laddove ne sussistano le
condizioni di legge;
b) che la formazione dei Capi Scout non può prescindere anche da specifiche
fasi rivolte all’acquisizione di conoscenze relative alla montagna,
all’apprendimento di tecniche di progressione e assicurazione, di esperienze
sul campo.
Ed è proprio muovendo da tali considerazioni che il CAI e le Associazioni Scout si
incontrano nuovamente nel Convegno odierno, per approfondire insieme temi
destinati non solo ad una sempre maggior presa di coscienza da parte dei propri
Istruttori e Accompagnatori e dei Capi Scout, ma anche di coloro che vengono
“accompagnati”, perché la loro crescita si traduca anche in una proiezione verso
l’autoresponsabilità che trovi riscontro, poi, in sede di valutazione comparativa delle
condotte in caso di incidente.
Il che non significa cercare di deresponsabilizzare chi, invece, deve avere piena
contezza dei propri doveri di protezione ed assolverli, quanto piuttosto attribuire
all’accompagnato o all’allievo un ruolo da coprotagonista che, fermo il diritto ad
essere “protetto”, deve considerarsi ed essere considerato come chiamato, a sua volta,
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a condotte diligenti e corrette: in tal modo non si avranno un soggetto gravato da
ogni e qualsiasi responsabilità ed un altro del tutto passivo e tutelato al di là di ogni
ragionevolezza, bensì un Capo scout e di componenti del suo gruppo, onerati
ciascuno, pur nella differenziazione dei ruoli, da precisi obblighi la cui violazione
avrà una ricaduta sul rapporto di accompagnamento che si viene a costituire e sulle
responsabilità che ne possono derivare.
Questo perché, se pure è vero che “la responsabilità del volontario è da considerarsi
un valore”, la montagna correttamente intesa è quella in cui presenza mentale ed
impegno costante siano appannaggio di tutti i suoi frequentatori, quale che sia il
ruolo o la funzione ricoperta, in modo che le eventuali responsabilità, in caso di
infortunio, vengano accertate nel pieno rispetto delle normative e non già in base a
pregiudizi o mediante applicazione di forme di presunzione, talora al di là delle
stesse previsioni normative.
3. LE MODALITÀ DI FREQUENTAZIONE DELLA MONTAGNA
La possibilità di accedere alle montagne è, almeno sin qui, offerta a tutti e tutti
devono essere consapevoli che tale frequentazione implica una assunzione di rischio,
in parte gestibile ed in parte oggettivamente ineliminabile.
Ciascuno è libero, quindi, di scegliere la propria modalità di frequentazione, che può
essere: solitaria ed autonoma, oppure con amici o altri alpinisti, escursionisti o
speleologi, o ancora con accompagnatori volontari o con guide alpine (professionisti)
oppure, ed è il caso che ci occupa, nell’ambito di Associazioni Scoutistiche i cui
gruppi di ragazzi accedono alla montagna affiancati da un Capo Scout.
La scelta di andare in montagna in uno, piuttosto che in un altro, dei modi indicati,
comporterà una differenziata graduazione del rischio che si intende accettare e che,
pur costituendo la imprescindibile costante delle attività in oggetto, risulterà così
diversamente distribuito: chi va da solo assume un rischio totale, proprio ed
esclusivo, mentre chi decide di procedere accompagnato, e in quanto tale, oltre ad
effettuare una scelta prudente, viene anche a trovarsi in una posizione che, in vario
modo, come si vedrà fra breve, risulta “garantita” rispetto a possibili eventi dannosi.
Il che, a mio avviso, accade anche con riferimento alla figura del Capo Scout.
Vediamo insieme per quali motivi.
Sappiamo che si definisce “accompagnamento” l’attività umana per cui un soggetto,
l’accompagnatore, professionalmente, per spirito associazionistico o per amicizia o
cortesia si unisce ad una o più persone, gli accompagnati, accettando espressamente
o tacitamente di offrire loro collaborazione e protezione in misura corrispondente a
capacità e conoscenze, talora certificate, per consentire o favorire lo svolgimento
dell’attività alpinistica, escursionistica e o speleologica.
La ragione per cui ci si rivolge ad un accompagnatore, quindi, è quella di diminuire il
rischio che si intende assumere, benchè ne perduri una quota variabile, rapportata al
livello di affidamento che si determina in ragione del grado di qualificazione
dell’accompagnatore e delle capacità dell’accompagnato, investendosi il primo di un
potere direttivo cui corrisponde la subordinazione del secondo, con l’ulteriore effetto
di dare vita ad una relazione che, a determinate condizioni, può costituire fonte di
responsabilità.
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Mentre nel lessico corrente il concetto di “accompagnamento” è riferibile a
molteplici situazioni nelle quali delle persone svolgano attività congiuntamente,
perché sussista un accompagnamento in senso giuridico occorre che la relazione tra
coloro che vanno in montagna risulti connotata dalla finalità, implicitamente sottesa
nel contesto in cui opera il Capo Scout-Educatore, di trasferimento di una quota parte
di rischio dall’accompagnato all’accompagnatore. Ne deriva in capo a quest’ultimo
l’insorgere di un dovere di protezione, con i relativi obblighi a favore dell’altro;
anche nei confronti di quest’ultimo si costituiscono, ad un tempo, un proporzionale
affidamento, da parte del Capo Scout, parimenti tutelato, e con obblighi di diligenza
e correttezza.
Per questo non sarà accompagnatore in senso giuridico l’amico o lo Scout con cui si
organizza una uscita per la quale si sia dotati di analoga preparazione ed esperienza;
lo stesso deve dirsi per l’accompagnatore qualificato o finanche la guida alpina, ogni
qualvolta l’escursione o la salita costituiscano una mera occasione di attività
congiunta, ma senza la specifica finalità di integrare i limiti di esperienza,
conoscenza e capacità tecniche da parte dell’uno e a favore dell’altro, così da rendere
praticabile quel che, altrimenti, non si sarebbe potuto affrontare.
Ecco perché il Capo Scout acquista il ruolo e le funzioni di accompagnatore nel
senso giuridico sopra esposto, in quanto, nello svolgimento della propria attività
educativa, assume anche una parte del rischio dei ragazzi che accompagna in
relazione al tipo e livello di “avventura” prescelto.
4. POSIZIONE DEL CAPO SCOUT RISPETTO ALL’AMBITO DEGLI
ACCOMPAGNATORI
Gli accompagnatori possono essere:
a) professionali, iscritti ad albi ed operanti, normalmente, per ottenere un
corrispettivo a fronte della propria prestazione lavorativa: sono la guida
alpina-maestro di alpinismo, l’accompagnatore di media montagna, la guida
vulcanologica, la guida speleologica, nonché le altre figure professionali
create dalle legislazioni regionali in ambito turistico;
b) non professionali o volontari, con l’obbligo assoluto di gratuità della
prestazione, a loro volta:
b1) qualificati: nel caso degli istruttori ed accompagnatori titolati del CAI;
b2) non qualificati: nel caso di chi si presta ad accompagnare per ragioni
associazionistiche, di amicizia o di cortesia
Il livello graduato di preparazione, competenza ed esperienza di ciascun tipo di
accompagnatore, fermo il dovere di protezione che fa capo a tutti, determina un
differente livello di affidamento, cioè di aspettative, nell’accompagnato, nel senso
che quanto minore risulti tale livello, tanto maggiore sarà il rischio accettato.
Il Capo Scout è certamente un accompagnatore volontario ma, in assenza di uno
specifico iter di formazione tecnica, riveste sì una qualifica che ne sottende le
precedenti esperienze e una comprovata formazione rispetto al ruolo che, proprio per
questo gli viene attribuito dall’Associazione, ma non può dirsi “accompagnatore
qualificato”.
47
Il che dovrebbe, almeno a livello teorico, determinare una minore aspettativa di
protezione sia da parte dei ragazzi (e delle loro famiglie) sia da parte
dell’ordinamento.
5. IL CAPO SCOUT E L’OBBLIGO DI IMPEDIRE EVENTI DANNOSI
La violazione di una norma penale preveda l’applicazione di una sanzione
strettamente personale (art. 27 comma 1 della Costituzione).
Le disposizioni penali sono da intendere come di ordine pubblico e sono poste a
tutela di beni considerati primari (si pensi alla vita, alla integrità psico-fisica delle
persone, alla libertà in tutte le sue forme etc.) per cui non sono ipotizzabili preventive
clausole di esonero responsabilità, che risulterebbero nulle ai sensi dell’art. 1229
comma 2 c.c. .
Le ipotesi delittuose che possono assumere rilevanza nell’attività dei Capi Scout
sono principalmente:
- l’omicidio colposo (art. 589 c.p.)
- le lesioni personali colpose (art. 590 c.p.)
- l’omissione di soccorso (art. 593 c.p.)
Si tratta di casi in cui quel che viene normalmente contestato è di non aver impedito
l’evento dannoso che, a mente dell’art. 40 comma 2 c.p., si aveva l’obbligo giuridico
di impedire, con la conseguenza che lo si è, per equivalenza, cagionato (cd. reato
omissivo improprio).
Nel caso degli accompagnatori, professionali, come in quello dei volontari, tale
obbligo giuridico deriva dalla assunzione della “posizione di garanzia”, con
contenuti di protezione correlati all’affidamento che si genera nell’accompagnato23.
Molteplici sono le fonti cui riconnettere l’insorgere di una posizione di garanzia
intesa come “rivolta a riequilibrare la situazione di inferiorità (in senso lato) di
determinati soggetti attraverso l’instaurazione di un rapporto di dipendenza a scopo
protettivo”.24
Alle tradizionali fonti dell’obbligo di impedire determinati eventi, vale a dire la legge,
penale o extrapenale; il contratto o la propria precedente azione pericolosa, altre ne
sono state aggiunte attraverso la teoria del contatto sociale.
In realtà vi è generale consenso sul fatto che, anche al di fuori di tali ipotesi, sia
possibile individuare molteplici posizioni di garanzia con l’obbligo di impedire
determinati eventi, in applicazione di specifiche norme costituzionali, prima fra tutti
l’art. 2 che costituisce il cardine del principio solidaristico sociale, riconoscendo
diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo che nelle formazioni sociali, ma
imponendo, ad un tempo, il rispetto dei doveri inderogabili di solidarietà politica,
economica e sociale.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
23 Cass. Pen. 24.03.2003 n. 13323
24 Fiandaca e Musco, Diritto Penale 2004 – 565
48
Anche l’art. 32 della Costituzione che tutela il diritto alla salute e, in essa, l’integrità
psico-fisica degli individui, rappresenta un riferimento costituzionale dell’obbligo di
impedire eventi che tale integrità vedano lesa.
Cenno a parte, per completezza, va fatto per l’ipotesi in cui l’accompagnatore
volontario dovesse richiedere o percepire un compenso e non il solo rimborso delle
spese, che è, invece, consentito: si avrebbe in tal caso esercizio abusivo di una
professione (quella di guida alpina), che richiede una speciale abilitazione dello Stato
ed è punito ai sensi dell’art. 348 c.p. .
6. PROFILI DI COLPA DEL CAPO SCOUT
L’elemento soggettivo cui fare normalmente riferimento nel campo delle
responsabilità del Capo Scout è quello della colpa. Perché vi sia colpa deve mancare
la volontà dell’evento dannoso e si parla di colpa in senso generico laddove si
ravvisino negligenza, oppure imprudenza o imperizia, vale a dire l’inosservanza di
regole di condotta che tendono a prevenire il verificarsi di quegli eventi dannosi che
le stesse miravano ad impedire.
Ciò significa che il Capo Scout per non vedersi ascrivere una “colpa” dovrà
osservare:
a) Le regole di diligenza, che sono quelle che prevedono le modalità con cui
vanno compiute le azioni ed il cui mancato rispetto è altrimenti definito come
negligenza, trascuratezza, disattenzione, dimenticanza, svogliatezza. È
negligente partire per un’escursione senza avere verificato le condizioni della
propria attrezzatura tecnica e di quella dei componenti del gruppo; procedere
in testa a questi ultimi senza più curarsi della loro situazione e
dell’andamento della salita, posto che qualcuno potrebbe sbagliare percorso
ed incorrere in pericoli, oppure avere bisogno di assistenza o consiglio.
b) Le regole di prudenza, che sono quelle che vietano di compiere certe azioni o
di compierle con certe modalità; l’inosservanza di tale divieto costituisce
imprudenza, noncuranza, temerarietà, contrasto con le norme di sicurezza
dettate dalla ragione o dall’esperienza. È imprudente iniziare un’escursione in
caso di forte maltempo o di previsione di forte maltempo; sostare in luoghi
sovrastati da pericoli, accompagnare un numero di partecipanti superiore a
quello che consente di prestare a tutti adeguata assistenza.
c) Le regole di perizia, che sono quelle che prescrivono l’osservanza di
particolari tecniche per il compimento di determinate attività; sono altrimenti
definite regole di diligenza tecnica, per significare che, acquisite dalle
conoscenze e dalle tecniche alcune regole aggiornate di comportamento, ad
esse deve conformarsi chi svolge quella particolare attività. È imperizia,
allora, il difetto di impiego di tali nozioni, come pure dell’abilità e della
preparazione tecnica richiesta per svolgere certe funzioni.
Deve altresì considerarsi l’eventuale profilo di colpa specifica, vale a dire quella
connessa alla violazione di leggi, regolamenti, ordini o discipline: in quanto caso ci
si trova di fronte a norme destinate a tutti (leggi, regolamenti e discipline) o a
49
particolari soggetti o a singoli (ordini) dettate in funzione preventiva, volte cioè ad
evitare che accadano proprio gli eventi dannosi che il loro mancato rispetto rende
ragionevolmente probabili.
Tali disposizioni, per lo più scritte, esprimono, quindi, un giudizio di prevedibilità,
sulla scorta di esperienze e di nozioni acquisite, quanto al fatto che dalla violazione
di un certo divieto possa derivare uno specifico evento dannoso: trattandosi di una
prevedibilità secondo criteri di normalità e di ragionevolezza, non è detto che,
necessariamente, violata la norma, l’evento dannoso si produca, ma è certo che, ove
tale evento si producesse, la responsabilità verrebbe immediatamente addossata
all’accompagnatore sul quale incomberebbe l’onere di fornire la non facile prova che
l’evento dannoso è dipeso da altri fattori.
7. IL NESSO DI CAUSALITÀ
Tra la condotta, attiva od omissiva, e l’evento dannoso deve sussistere un nesso di
causalità: il che equivale a dire, semplificando, che senza quella condotta o quella
omissione non si sarebbe verificato quello specifico evento.
In ambito penale è l’art. 40 comma 1 c.p. a prevedere che nessuno possa essere
punito “se l’evento dannoso o pericoloso da cui dipende l’esistenza del reato, non è
conseguenza della sua azione od omissione”.
In esito a recente sentenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte25 è oggi possibile
distinguere nettamente il criterio da adottarsi per la valutazione del nesso di causalità
in sede penale rispetto a quella civile.
Nello specifico si è precisato che:
a) in sede penale possa ritenersi sussistente il nesso di causalità materiale in
presenza di un elevato grado di credibilità razionale, che sia prossimo alla
certezza;
b) in sede civile è sufficiente, invece, che la relazione probabilistica concreta tra
comportamento ed evento dannoso si attesti sul “più probabile che non”.
Tale notevole differenza trova una sua logica, ancor più che nella finalità della tutela
approntata, nel differente regime sanzionatorio previsto, per cui, per pronunciare una
condanna penale si richiede un livello di probabilità di collegamento tra la condotta e
l’evento che sia prossimo alla certezza, ben sapendo che spesso è in gioco la libertà
individuale della persona.
8. LA FONTE DEL DOVERE DI PROTEZIONE CHE INCOMBE SUL
CAPO SCOUT
Si è detto chiaramente che il Capo Scout riceve l’incarico e assume il ruolo e la
funzione di Educatore con previsione, però, di modalità operative che ne connotano
l’attività anche con il costituirsi di un rapporto di accompagnamento rispetto al
gruppo affidatogli.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 25 Per tutte Cass. Civ. Sez. Unite 11.01.2008 n. 576
50
La conseguenza è l’insorgenza di una posizione di garanzia e del correlato dovere di
protezione, il cui contenuto richiede di essere adeguatamente precisato, tenendo
conto che, se da un lato vi è piena adesione dei partecipanti e delle loro famiglie al
metodo educativo scautistico e, quindi, un consenso rispetto alle attività connesse e
alle loro modalità di attuazione, dall’altro vi sarà il confronto con la tutela che
l’ordinamento intende assicurare, in via prioritaria, alla integrità psicofisica di coloro
che vengono accompagnati, così come confermato dalla casistica giurisprudenziale
formatasi in tema di incidenti in ambito scout, esaustivamente citata nella relazione
del Dott. Colaiocco.
Si tratta, allora, di prendere le mosse dalla fonte del dovere di protezione riferibile al
Capo Scout, per meglio e correttamente individuarne i contenuti e,
conseguentemente, la condotta dallo stesso esigibile.
Operandosi nell’ambito del volontariato, deve escludersi che la fonte normativa dei
doveri del Capo Scout sia rappresentata da un contratto (fonte, invece, tipica del
rapporto tra la Guida Alpina ed il cliente), così come non vi sono leggi penali o
extrapenali che impongano, a priori, al Capo Scout di impedire determinati eventi.
Quel che in realtà accade è che interviene una assunzione spontanea, in assenza di un
obbligo quale che sia, di una posizione di garanzia che, parallelamente, invogli il
componente del gruppo ad affrontare determinate attività assumendo rischi che,
altrimenti e da solo, non avrebbe inteso correre: ed è su questa premessa che trova
tutela l’affidamento che viene in tal modo riposto nel Capo Scout.
Il che trova conferma nel Dizionario Scout che alla voce “volontariato”
26 precisa:
“gli adulti che aderiscono allo scautismo e ricoprono ruoli di responsabilità
educativa lo fanno volontariamente, in piena libertà e senza alcuna retribuzione”.
Va detto, però, che recente giurisprudenza in tema di accompagnamento di minori 27
ha ricondotto il dovere di protezione alla teoria del c.d. contatto sociale, tale
intendendosi quale fonte di obbligazioni ai sensi dell’art. 1173 c.c., nella parte in cui
richiama, a tal fine, “ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità
dell’ordinamento giuridico”.
Tale orientamento, che prescinde aprioristicamente dalla obbligatoria gratuità
dell’attività prestata dal volontario28, non è , a mio avviso, condivisibile e rischia di
falsare la chiave interpretativa di eventuali incidenti, con l’applicazione dei canoni
della contrattualità, in un contesto che non solo non la prevede ma che, addirittura,
la esclude.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 26 Dizionario Scout Illustrato di V. Pranzini e N. Pranzini – 2007 – pagg. 273, 274
27 Tribunale Civile di Venezia n. 2580 del 17.10.2011
28 E’ quanto prevedono: la Legge Quadro sul volontariato n. 266/1991, art. 2 c. 1 per cui
attività di volontariato “è quella prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, tramite
l’organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro, anche indiretto ed
esclusivamente per fini di solidarietà”; lo Statuto del CAI che all’art. 35 prevede la gratuità
delle cariche centrali e territoriali, mentre l’art.70 del Reg. Gen. CAI, al comma 3 recita: “la
gratuità delle cariche sociali esclude esplicitamente l’attribuzione e l’erogazione al socio, al
coniuge o convivente, ai parenti entro il secondo grado di qualsiasi tipo di consenso
comunque configurato”
51
L’applicabilità della teoria del contatto sociale all’accompagnamento volontario è
stato oggetto di qualificati approfondimenti dottrinali29 che non ne hanno, però,
esclusa l’ammissibilità.
Ad avviso di questo relatore, invece, non può considerarsi coerente con il sistema
normativo vigente l’inquadramento in una fattispecie di contatto sociale quella in cui
il soggetto garante sia un volontario e come tale, non solo esente dall’obbligo di
prestazione (l’accompagnatore potrebbe anche non presentarsi il giorno fissato per
l’escursione e nessuno potrebbe contestargli un inadempimento, né imputargli
alcunchè ove mai l’escursione intervenisse ugualmente 30 ), ma altresì è
obbligatoriamente tenuto alla gratuità circa l’attività svolta, sotto pena di sanzione
penale.
Abbiamo già detto che la categoria del contatto sociale viene considerata fonte di
obbligazioni, in aggiunta al contratto o al fatto illecito, ai sensi dell’art. 1173 c.c..
Ora: le obbligazioni hanno per oggetto una prestazione la cui peculiarità, ai sensi
dell’art. 1174 c.c. è che “deve essere suscettibile di valutazione economica e deve
corrispondere ad un interesse, anche non patrimoniale, del creditore” e, a tale
riguardo, pur prendendo atto che la giurisprudenza ha inteso l’espressione
“suscettibile di valutazione economica” ammettendo che le parti potrebbero
considerare tale anche una prestazione oggettivamente non patrimoniale, non può
negarsi che in nessun caso l’attività svolta da un volontario può assimilarsi al
concetto di prestazione, proprio perché l’obbligo di gratuità e le ragioni sottese
all’attività stessa escludono a priori la possibilità di connotarla con una
“patrimonialità”.
Se, poi, si considera che il modello del “contatto sociale” trae origine dagli
approfondimenti in tema di rapporti contrattuali di fatto, per cui si sarebbe giunti a
tale figura nei casi in cui un contatto fa sorgere vere e proprie “obbligazioni
contrattuali in assenza di contratto”31, non può trascurarsi la circostanza che anche la
nozione di contratto postula l’esistenza di un “rapporto giuridico patrimoniale” (art.
1321 c.c.), ancora una volta rinviando a quella “patrimonialità” della prestazione che
abbiamo visto essere necessariamente estranea a qualsiasi rapporto instaurato da un
volontario.
E poiché è noto che “il requisito della patrimonialità della prestazione vale a
delimitare l’ambito di applicazione delle norme sull’obbligazione, le quali non si
applicano quando manca quel requisito, ossia quando si è in presenza non di
obbligazioni, bensì di obblighi”
32, l’assenza di “patrimonialità” relativamente agli
obblighi assunti dal volontario non consente di inquadrare il rapporto cui lo stesso
partecipa nel novero delle obbligazioni.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
29 L. Lenti - Alpinismo ed escursionismo in montagna - “la montagna” – Torino 2013, 405
sottolinea la non irrilevanza, in argomento della gratuità, nel senso che la responsabilità, per
tale motivo, dovrebbe essere valutata con minor rigore.
30 Cass. Pen. 04.07.2007 n. 25527
31 Cass. Civ. 22.01.1999 n. 589
32 Galgano, Diritto Civile e Commerciale, 2004, II,1; 7; v. anche Bianca, Diritto Civile, 1990,
L’obbligazione, 82: “Col richiedere il requisito della patrimonialità della prestazione il
codice non ha per altro sancito un divieto ma ha delimitato la figura dell’obbligazione”; Cian
Trabucchi, Commentario breve al codice civile 2007, 1211.
52
Non risulta, quindi, applicabile, in tal caso, la categoria del contatto sociale come
fonte di obbligazione, poiché quel “contatto”, pur suscettibile di generare obblighi,
non può dare vita ad una obbligazione in senso stretto.
La conclusione è, quindi, nel senso che ogniqualvolta l’accompagnamento sia svolto
da un volontario, i relativi doveri di protezione non potranno ricondursi ad una
ipotesi di contatto sociale, bensì alla già accennata assunzione spontanea, in ambito
associativo, di un ruolo e di una funzione cui sono ricollegati profili di responsabilità,
dei quali il movimento scautistico è pienamente consapevole, così da definire “Capo
Campo” “il responsabile di ogni tipo di campo che viene organizzato nell’ambito
scout” e “Capo Gruppo” “il responsabile del gruppo organismo fondamentale per
l’attuazione del metodo scout”
33
LA CONDOTTA ESIGIBILE DAL CAPO SCOUT
Sia pure estraneo all’ambito della contrattualità, il rapporto che si viene a costituire
tra il Capo scout e i componenti del gruppo affidatogli, comporta in ogni caso precisi
obblighi di informazione, di avviso, custodia, cooperazione e conservazione, quali
espressione della solidarietà e della buona fede cui la sua condotta deve ispirarsi.
L’informazione e gli avvisi dovranno essere adeguati, dedicando, specie quando ci si
rivolge a dei neofiti, un tempo sufficiente a far acquisire le nozioni e capacità
necessarie, presupposto indefettibile perché possa ipotizzarsi una reciprocità tra
comportamenti da tenersi dall’una e dall’altra parte.
Il Capo Scout dovrà completare l’informazione facendo, altresì presente:
a) che frequentare la montagna comporta dei rischi oggettivi, legati all’ambiente
naturale e alle difficoltà, graduate, dei percorsi prescelti;
b) che tali rischi non possono essere eliminati neppure dal più attento, prudente
ed esperto degli accompagnatori;
c) che alla posizione di garanzia da lui assunta, corrispondono, nei componenti
del gruppo, un dovere di subordinazione/soggezione ed analoghi doveri di
protezione;
d) che i componenti del gruppo saranno tenuti alle medesime regole di diligenza
e correttezza cui è tenuto il Capo Scout 34;
e) che qualora l’evento dannoso fosse riconducibile esclusivamente alla
violazione da parte di un componente del gruppo delle predette regole di
diligenza e correttezza, si avrebbe l’interruzione del nesso di causalità35 e
nessun addebito potrebbe formularsi a carico del capo Scout.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
33 Dizionario Scout – cit. pag. 56
34E’ quanto si ricava da Cass. Civ. Sez. Unite 21.11.2011 n. 24406 : “Il comportamento
omissivo del danneggiato rilevante non è solo quello tenuto in violazione di una norma di
legge, ma anche più genericamente in violazione delle regole di diligenza e correttezza. Ciò
comporta che, ai fini di un concorso del fatto colposo del danneggiato ex art. 1227 primo
comma c.c., sussiste il comportamento omissivo colposo del danneggiato ogni qual volta tale
inerzia contraria a diligenza, a prescindere dalla violazione di un obbligo giuridico di
attivarsi, abbia concorso a produrre l’evento lesivo in suo danno”.
35 Cass. Civ. n. 28811/2008
53
In tal modo risulterà correttamente soddisfatto l’obbligo di informazione e si otterrà
l’ulteriore effetto di potersi rapportare con degli accompagnati consapevoli, in
quanto informati ed avvisati, il che consentirebbe, ove ritenuto opportuno, di
richiedere il rilascio di una conforme “attestazione di consapevolezza e di
intervenuto avviso ed informazione”, da rilasciarsi anche in modo progressivo, mano
a mano che le informazioni e le competenze vengono effettivamente acquisite.
Naturalmente l’informazione, gli avvisi e le conoscenze devono essere
effettivamente forniti, esposti in modo adeguato e comprensibile e l’attestazione
deve confermare qualcosa di realmente accaduto e non essere il frutto della mera
sottoscrizione di un foglio.
10. LA CONDOTTA DEL COMPONENTE DEL GRUPPO
Tutto il metodo educativo scout è finalizzato alla progressione personale dei giovani
attraverso un cammino in cui Lupetti e Coccinelle, Rover e Scolte, Esploratori e
Guide vengono avviati all’autonomia e al senso di responsabilità, attraverso attività
di formazione che possono riassumersi nell’espressione omnicomprensiva di
“Avventura”.
In tale processo formativo del carattere, si ricorre spesso al concetto di
autoeducazione intesa come partecipazione attiva dei ragazzi, sempre più
consapevole e critica.
Su tali premesse non può sussistere dubbio alcuno che il componente del gruppo
guidato dal Capo Scout, nella prospettiva dell’accompagnamento, sia un
coprotagonista dell’esperienza escursionistica condivisa e non già una sorta di
passiva appendice di un accompagnatore chiamato a rispondere in ogni caso.
Ciò comporta che quegli stessi obblighi di informazione e protezione che gravano sul
Capo Scout, gravino anche sui ragazzi o sulle ragazze del gruppo, che sono tenuti a
fornire una adeguata e corretta informazione circa le proprie conoscenze, esperienze
precedenti, condizioni psicofisiche ed eventuali criticità, perché sarà su tali basi che
saranno possibili corrette valutazioni e progettualità da parte del Capo Scout.
Potrebbe, quindi, sostenersi che, pur in presenza di un rapporto di accompagnamento,
non viene meno il principio di autoresponsabilità ricollegabile al già richiamato
dovere di solidarietà sociale previsto dall’art. 2 della Costituzione, correttamente
inteso come “strumento per indurre anche gli eventuali danneggiati a contribuire
affinchè un pregiudizio non si verifichi ed è finalizzato ad ottenere una migliore
ripartizione dei compiti tra danneggiante e vittima”
36.
Si aggiunga, infine, che la sussistenza di una condotta colposa ascrivibile
all’accompagnato e la sua ricaduta nella valutazione complessiva dell’illecito è stata
considerata37, rilevabile d’ufficio e non solo su eccezione di parte: il che significa
che se il Giudice, dalla ricostruzione dei fatti, dovesse rilevare negligenza o
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
36 Raffaele Plenteda in Altalex 13.12.2011 commento a Cass. Civ. n. 25239/2011
37 E’ quanto si ricava da: Cass. Civ. 25.09.2008 n. 24080; Cass. Civ. 23.01.2006 n. 1213. Se
pure il profilo di responsabilità esaminato nel presente intervento attenga l’ambito penale, il
principio richiamato assume rilevanza per la sempre possibile proposizione dell’azione civile
risarcitoria nel processo penale.
54
imprudenze o, comunque, violazioni, da parte dell’accompagnato, dovrà tenerne
conto in ogni caso.
In conclusione si può affermare che anche in capo all’accompagnato sussistono
precisi obblighi di diligenza e correttezza la cui violazione può costituire fonte di
responsabilità concorrente con quella del Capo Scout, quando non addirittura
esclusiva.38
11. UNA DECISIONE SIGNIFICATIVA
Il Tribunale Penale di Bergamo è stato chiamato a giudicare il caso di un volontario
che, operando in collaborazione con un’associazione dilettantistica sportiva che si
occupava di disabili visivi, era stato tratto a giudizio con una imputazione di
omicidio colposo, perchè “nel corso di un’escursione ………….., accompagnando il
non vedente X, nel percorrere il sentiero Y in un tratto di discesa pericoloso – attesa
la pendenza nonché la presenza di sassi, di un dislivello e di un burrone, ometteva di
fornire al non vedente indicazioni chiare e precise circa la strada da percorrere, di
segnalargli le difficoltà del percorso, nonché di fargli superare in sicurezza gli
ostacoli rappresentati dai sassi e dal dislivello, così che X perdeva l’equilibrio e la
presa sulla parte posteriore dello zaino dell’accompagnatore scivolando al di sotto
della staccionata posta a margine del percorso e finendo nel dirupo sottostante, in
tal modo riportando le gravissime lesioni che ne determinavano il decesso”.
Con la sentenza n. 723 del 12.06.2013 (Est. Dott. Battista Palestra), il giudicante ha
escluso la penale responsabilità dell’imputato con la formula “perché il fatto non
costituisce reato”, con riferimento alla mancanza dell’elemento soggettivo della
colpa.
Quel che rileva ai fini della presente relazione è l’iter motivazionale della decisione,
che offre positivi riscontri a quanto sin qui esposto.
La stretta pertinenza con il tema trattato è confermata dalla circostanza che
l’imputato era un volontario, operante in ambito associazionistico, il quale,
essendosi reso spontaneamente disponibile ad accompagnare un soggetto non
vedente lungo un sentiero escursionistico, aveva assunto la relativa posizione di
garanzia con quanto ad essa collegato.
Il Giudice, mostrando esperienza di montagna e competenza puntuale in tema di
accompagnamento, ha articolato la decisione:
a) muovendo da fondamentali e condivisibili premesse:
- “La “disgrazia” viene rigettata come ipotesi che non rientra nel calcolo
ordinario delle probabilità: e questo rende comprensibilissimo
l’atteggiamento psicologico – omissis – volto ad esorcizzare “la probabilità
disgrazia” e che trova conforto – omissis – nell’idea e nella convinzione che
l’evento si riconduca (non – possa – che – ricondursi) a colpa di qualcuno: è
un atteggiamento più che comprensibile che giustifica a priori anche le
situazioni nelle quali l’atteggiamento della vittima vira da una iniziale
condivisione della “fatalità” dell’accaduto verso la ricerca di un
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 38 Cass. Pen. 26.05.1999 n. 8006
55
“responsabile”, come circostanza che in qualche modo aiuta a farsi una
ragione del dolore e del lutto”.
- “Occorre affermare con chiarezza che il fatto che l’attività di
accompagnamento in montagna … si iscriva in un contesto assolutamente
volontaristico e – senza tema di smentite – sicuramente benemerito, e che la
vittima beneficiasse riconoscente di quel impegno, non potrebbe togliere
nulla alla eventuale responsabilità a titolo di imprudenza o di negligenza
(con la vita umana non sono possibili leggerezze!) e l’accertamento in
concreto di una situazione di colpa non potrebbe essere impedito dalla
considerazione – che pure ha un suo fondamento psicologico – che, in questo
modo, verrebbe “scoraggiata” la prosecuzione di una attività come quella
svolta da X e dagli altri volontari dell’associazione”.
- Che “deve essere accertata una responsabilità non assistita da una
qualunque presunzione sfavorevole di tipo civilistico (ed anzi dovendosi
contrastare una presunzione di non colpevolezza) e che la invocata
“posizione di garanzia” non può essere confusa con qualcosa che assomigli
ad una responsabilità di tipo obiettivo per il solo fatto che si verifichi
l’evento dannoso la cui prevenzione risultava, appunto, affidata al titolare
della posizione”.
b) Ricostruendo la posizione del soggetto accompagnato, il suo livello di
esperienza e le connesse consapevolezze, sintetizzabili nel fatto che
l’accompagnato, prima della patologia che ne aveva minato la vista, era stato
“escursionista di lungo corso e di grande esperienza” e che, nonostante la
perdita di un organo che chiunque considererebbe essenziale per una attività
come quella esaminata, “non aveva fatto passi indietro, affrontando anzi
situazioni sicuramente più complesse come evidenziate dal suo carnet di
escursioni”.
c) Descrivendo l’esito del sopralluogo e delle verifiche del materiale fotografico
precisando che “il percorso si sottolinea già dal punto di vista della
lunghezza e del dislivello, ma presenta un impegno ancora più marcato per
ciò che riguarda il terreno, non equiparabile ad una comoda mulattiera ….
Ma con numerosi tratti ripidi e caratterizzato da continui ed importanti
scoscendimenti e sconnessioni, praticamente fin dal suo inizio”.
d) Inquadrando concettualmente l’accompagnamento volontaristico in
montagna, anche nell’ottica della fonte normativa di una possibile
responsabilità, osservando che “non vi sono parametri normativi per la
individuazione di una “competenza minima” di chi si presti ad
accompagnare volontaristicamente qualcuno in media montagna” per cui
“ogni eventuale défaillance …. deve essere rapportata caso per caso ai
criteri ordinari della prudenza e della diligenza” e concludendo “che non vi
sono vincoli normativi di nessun genere diversi dal principio del “neminem
laedere””.
e) Analizzando gli standard di condotta esigibili, pur premettendo che “non vi
sono indicazioni normative sull’accompagnamento dei ciechi in montagna” e
56
confrontando le concrete modalità utilizzate dall’accompagnatore con quelle
normalmente idonee a garantire una progressione in sicurezza nello specifico
caso.
f) Ricostruendo, per quanto possibile alla luce delle testimonianze, le condotte
dei soggetti coinvolti.
g) Infine concludendo per l’assenza di prova che la caduta di X fosse da
ascrivere ad un comportamento colposo dell’imputato e, che non vi era stata
da parte di quest’ultimo una omissione di prudenza e diligenza
doverosamente – e con giudizio ex ante – a lui richiedibili.
Si tratta di una motivazione totalmente condivisibile sia per quanto attiene le
premesse, sia per la progressione dei temi di indagine e la scelta di questi ultimi.
In particolare trova conferma la priorità della tutela della vita e della integrità
psicofisica delle persone rispetto al pur lodevole volontariato, al quale, però, viene
assicurato, mediante una analisi corretta e puntuale dei contesti e delle situazioni
oggettive e soggettive, senza forzature delle norme vigenti, ed in particolare di quelle
afferenti l’imprescindibilità dell’elemento soggettivo della colpa, non indulgendo a
favore di facili scorciatoie suggerite da presunzioni di derivazione civilistica, a
connotazione contrattuale, o di sostanziali oggettivazioni della responsabilità
derivante dalla posizione di garanzia.
12. CONCLUSIONI
Incontri come quello odierno hanno il grande merito di portare all’attenzione, ad un
tempo, del mondo giuridico e di quello del volontariato tematiche che, correttamente
affrontate e sviluppate, non potranno che assicurare un sempre maggiore rispetto dei
soggetti interessati dall’accompagnamento in montagna, e degli ideali del
volontariato, attraverso la corretta applicazione delle disposizioni che regolano
l’accertamento della responsabilità penale.
L’auspicio è che le riflessioni e gli spunti emersi in questa occasione possano
costituire un utile riferimento per tutti coloro che vorranno dedicare a questa materia
ulteriore e più specifica attenzione.
In ogni caso senza dimenticare un prezioso messaggio di Baden Powel 39 “Guardate
al lato bello delle cose e non al lato brutto. Ma il vero modo di essere felici è quello
di procurare la felicità agli altri”.
***
Anche il CAI condivide quanto sinora detto dai precedenti relatori ovvero richiama
ad una maggiore diligenza e ad una maggiore cautela da parte degli
accompagnatori e quindi per quanto in questa sede rileva, da parte dei capi scout.
Se prima abbiamo trattato il tema del principio del rischio consentito, l’Avv. Torti ha
richiamato un altro importante principio in questo ambito: il principio
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
39 Messaggio di Baden – Powel agli esploratori, pubblicato postumo in Dizionario Scout cit.
– pag. 171
57
dell’affidamento ovvero tutti gli accompagnatori e i capi scout devono avere la
consapevolezza che in loro ripongono fiducia tutti gli accompagnati e tutti gli allievi.
Il quarto intervento invece affronterà in modo più ampio il concetto di rischio e di
responsabilità che è insito nella frequentazione dell’ambiente montano.
58
MONTAGNA: EDUCAZIONE ALLA RESPONSABILITÀ E
ALLA SOLIDARIETÀ
Giovanni Maria Flick
Grazie, sarò brevissimo; tranquillizzatevi. Accetto volentieri l’invito, non tanto per
ragioni familiari, ma perché sentir parlare di questo tema mi ha ricordato un periodo
passato in cui andavo in montagna e mi occupavo del tema della responsabilità.
Ho partecipato alla nascita e alle prime iniziative del discorso – nuovo, all’epoca in
cui iniziammo ad approfondirlo – su “rischio e responsabilità in montagna”. Poi ho
dovuto lasciare questo tema, per occuparmi di altre salite molto più difficili e meno
piacevoli di quelle di montagna. Per ironia della sorte, proprio a Courmayeur, dopo
varie stagioni in cui andavo per montagne, mi sono rotto il malleolo – scivolando su
una lastra di ghiaccio sulla strada asfaltata, in periodo invernale – quando ero già da
molto tempo dall’altra parte della barricata.
Ho voluto intervenire soprattutto perché ho sentito aleggiare nei discorsi di questa
mattina – e credo valga la pena di sottolinearla – l’importanza di alcune indicazioni
costituzionali che sono fondamentali per il tema che avete trattato.
Voi sapete certamente che la nostra Costituzione contiene le tavole della legge della
nostra convivenza civile e sociale. La nostra Costituzione è chiamata “presbite”
perché la si criticava per non aver visto alcuni problemi esistenti al momento della
sua nascita; però si è riconosciuto poi che questa presbiopia la rendeva capace di
guardare lontano: e ciò vale anche in materie come la montagna e la responsabilità.
Tanto è vero che aprendo la Costituzione si trovano alcune indicazioni proprio su
quello di cui voi avete discusso, e si conferma una volta di più che quando si parla
tanto – come oggi – di riscrivere la Costituzione, bisognerebbe rileggerla, prima di
riscriverla. Qualcuno dovrebbe addirittura leggerla.
Per venire al nostro tema, i principi costituzionali richiamati in causa dalla vostra
discussione di stamani sono il tema dell’ambiente e il tema della responsabilità:
“Montagna, ambiente, scautismo, responsabilità”.
Cominciando da questo secondo tema, rapidamente, a me sembra che lo scautismo e
le sue strutture rappresentino una formazione intermedia di volontariato essenziale ai
sensi dell’art. 2 della Costituzione: la norma che prevede che l’uomo e la donna
sviluppano la loro personalità nelle formazioni sociali intermedie. Le formazioni
sociali intermedie sono importanti per l’affermazione di quei diritti inviolabili che
caratterizzano la persona (art. 2), ma che si accompagnano a doveri inderogabili –
come dice la norma – di solidarietà politica, economica e sociale. Troppo spesso noi
ci ricordiamo solo dei diritti e non ci ricordiamo dei doveri, che sono l’altra faccia
dei diritti.
Perciò a me sembra che l’educazione alla responsabilità – una responsabilità di tutti,
sia di colui che educa, sia di colui che è educato, sia dello scout più anziano, sia dello
59
scout giovane – sia una componente essenziale dello scautismo come formazione
sociale. Mi pare obiettivo primario dello scautismo e suo DNA proprio l’educazione
alla responsabilità, sia dell’adulto che si occupa di scautismo, sia del giovane che gli
si affida.
Siamo di fronte a una situazione e ad un contesto di volontariato – tecnicamente lo
chiamiamo terzo settore – che è quanto mai importante difendere e riaffermare:
soprattutto oggi, in un momento in cui la cronaca di questi giorni ci mostra episodi
abbastanza ripugnanti di sfruttamento del volontariato e del terzo settore. Basta
leggere i giornali per capire che il terzo settore e il volontariato – che tante occasioni
e aperture possono offrire, soprattutto ai giovani, che tanto sono importanti in ambiti
come quelli dell’educazione giovanile, dell’intervento in carcere, dei beni culturali, e
potrei continuare per parecchio tempo – in questo momento rischiano di andare in
crisi.
V’è il rischio che si faccia di ogni erba un fascio. É importante meditare sul tema
della responsabilità, proprio per reagire all’ondata di depressione che monta,
vedendo che anche il volontariato è stato sporcato da chi ad esempio si augurava un
anno con molti immigrati e con molti rom, per poterne trarne più profitto
illecitamente, attraverso la corruzione.
In questo contesto, al di là del tecnicismo, di tutte le tecnicalità importantissime per
vedere come poi si articoli questo discorso in concreto, credo sia essenziale per lo
scautismo un discorso di responsabilità che nasce dalla fiducia, dalla consapevolezza
e quindi da una formazione adeguata: una formazione
di se stessi, dei ragazzi che ci vengono affidati, che vi vengono affidati, delle
famiglie di quei ragazzi. Consapevolezza del rischio vuol dire far capire al ragazzo –
in relazione alla sua adeguatezza, alla sua capacità, ai suoi limiti – e alla famiglia del
ragazzo, che cosa vuol dire rischio; e vuol dire prima di tutto capirlo noi.
Nel dna dello scautismo vi è innanzitutto l’educazione alla responsabilità di chi
educa e di chi è educato; l’educazione alla solidarietà nelle situazioni difficili;
l’educazione alla fiducia e all’affidamento, che è premessa della responsabilità;
l’educazione alla capacità di sapere essere in quel momento un capo, o di prepararsi
a divenirlo per i giovani che vi sono affidati; l’educazione a saper vedere il pericolo e
a saperlo evitare, anche con un po’ di umiltà; l’educazione alla formazione e
preparazione e alla consapevolezza dei propri limiti.
Ricordo quello che diceva l’amico Torti sulle ingenuità della montagna, come quella
di legarsi in corda senza esserne capaci. Legarsi è l’espressione più bella della
solidarietà e dell’aiuto reciproco, ma può essere la bischerata peggiore quando ci si
lega in troppi o quando alcuni di quelli che si legano non sanno come reagire se per
caso uno di essi scivola, come ho sperimentato anch’io ai tempi in cui andavo in
montagna.
L’educazione alla responsabilità è essenziale soprattutto in ambienti e in contesti
particolari, difficili, come la montagna. E qui passiamo al secondo valore
60
costituzionale che oggi voi avete evocato, il valore dell’ambiente, del patrimonio
ambientale. L’art. 9 Cost., colloca tra i principi fondamentali il rispetto, la tutela e la
valorizzazione sia dei beni culturali (il nostro passato), sia di quello che chiama
“paesaggio” e in realtà è l’ambiente, il territorio, il rapporto della persona con la
realtà che la circonda (il nostro presente e il futuro nostro e dei nostri figli).
L’amore della montagna si traduce nel rispetto dell’ambiente, richiede di contrastare
con ogni mezzo il degrado della montagna, si propone di evitare un turismo non più
della responsabilità, ma dello sfruttamento economico della montagna, della
eliminazione di ogni ostacolo. Quest’ultima prospettiva – di asservimento della
montagna alla logica dello sfruttamento e del profitto ad ogni costo – è quanto di
peggio ma quanto di più comune. Essa si diffonde sempre più; basta pensare alle
nostre stazioni sciistiche d’inverno ed al fatto che adesso questo discorso comincia a
svilupparsi purtroppo anche d’estate.
L’educazione alla montagna, a salire, a faticare, mi pare non una retorica sorpassata,
ma una componente essenziale dell’educazione alla responsabilità e al rischio
consapevole. La montagna è una grande scuola. Ce ne siamo dimenticati; la
distruzione del territorio, il suo sfruttamento economico, il momento solo ludico, la
distruzione dei boschi – di cui vediamo le conseguenze nella disgregazione del
nostro territorio nazionale – ci ricordano che bisogna ricominciare a salire.
Naturalmente bisogna ricominciare a salire con consapevolezza dei propri limiti, con
umiltà e con quei discorsi che avete fatto stamattina; ma ricominciare.
In un momento di depressione e di pessimismo come questo, è importante ritornare a
pensare allo scautismo come una delle forme di attuazione dell’art. 2 Cost. e al
rispetto della montagna come una forma di attuazione dell’art. 9 Cost.
Grazie e buon lavoro.
61
MONTAGNA: RISCHIO E RESPONSABILITÀ
Caterina Flick
La Fondazione Courmayeur Mont Blanc40
Vorrei innanzitutto portare il saluto della Fondazione Courmayeur e il saluto di
Waldemaro Flick, Vice Presidente dell’Osservatorio sul Sistema montagna “Laurent
Ferretti”.
La Fondazione Courmayeur Mont Blanc, istituita nel 1988 con Legge Regionale
della Valle d’Aosta, è nata dalla volontà congiunta della Regione Autonoma Valle
d’Aosta, del Comune di Courmayeur, del Centro nazionale di prevenzione e difesa
sociale e del Censis. Dall’agosto 1993 la Fondazione ha dato vita a un Congresso
annuale sulla montagna, “Montagna, Rischio e Responsabilità”, che da subito ha
fatto emergere, durante la prima ricognizione generale dei problemi, due temi
centrali nel parlare di montagna e di rischio e responsabilità: l’informazione e il
dialogo.
L’informazione come essenza di una cultura della trasparenza, della solidarietà e del
rapporto che esiste tra l’uomo e l’ambiente. Il dialogo che è assolutamente necessario
nel rapporto tra il teorico e il pratico, tra colui che vive il rischio sul terreno e l’uomo
di legge che lo vede a posteriori a tavolino. Chi va in montagna conosce i problemi,
ma poi il teorico, il giurista, quando accade un incidente o quando si deve fare
prevenzione deve riportare in categorie giuridiche ciò che avviene in un ambiente di
difficile “incasellamento”.
Negli oltre venti anni trascorsi la Fondazione ha sempre portato avanti la cultura del
dialogo e dell’informazione, attraverso convegni annuali e con la raccolta di tutta la
documentazione elaborata nel corso degli anni e pubblicata nella collana Rischio e
responsabilità dei quaderni della Fondazione.
La raccolta e il confronto di dati, esperienze, leggi, giurisprudenza consente di
portare avanti una educazione alla montagna – che è anche educazione alla vita e alla
solidarietà – che appare sempre più importante, nella misura in cui l’accesso alla
montagna diviene più facile e accessibile ad un vasto numero di persone.
Nell’ottica del dialogo e dell’educazione alla montagna è importante la promozione
di un incontro che mette a confronto il Club Alpino Italiano, istituzionalmente
dedicato alle attività di montagna e alla educazione alla montagna, e le principali
associazioni scout, per le quali il “fare strada” in montagna è parte integrante del
percorso educativo di ragazzi e ragazze. La Fondazione Courmayeur è lieta e onorata
di poter dare il proprio contributo a questa iniziativa.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
40 www.fondazionecourmayeur.it
62
Il rischio in montagna
La montagna - ed in particolare la montagna invernale - è un luogo che richiede
preparazione, esperienza e prudenza, ma dove non è sempre possibile prevedere
tutto. Un luogo dove l’uomo è soggetto alle regole della natura e non a regole scritte
da altri uomini.
L’attività in montagna è espressione di libertà, perché non risponde a regole
prefissate, ma richiede come contropartita l’accettazione di un rischio che, pur se
minimo, è ineliminabile e deve poter essere gestito al meglio, con scelte consapevoli
e responsabili, a tutela della incolumità propria e altrui.
Il rischio in montagna è inevitabile, perché la montagna è un luogo che non è
soggetta in alcun modo al controllo, non risponde a regole prefissate, nè è possibile
prevedere tutto ciò che può accadere. Il rischio in montagna può dipendere da un
insieme di fattori. Da ciò deriva che la gestione del rischio in montagna implica
l’adozione di precauzioni da parte di tutti gli “attori”: gli amministratori del
territorio, che devono occuparsi dell’ambiente nel suo insieme (penso alla necessità
di emanare ordinanze limitative, in particolari situazioni climatiche); coloro che
fanno impresa in montagna, gestori di impianti e strutture, tenuti a garantire
condizioni di sicurezza per l’esercizio di attività sportive; i professionisti della
montagna, istruttori, allenatori e accompagnatori; da ultimo gli utenti, fruitori della
pratica ludico-sportiva, che possono essere autori oltre che vittime, di condotte
imprudenti e pericolose. Tra gli utenti io indicherei anche gli accompagnatori non
sono professionisti, perché se anche assumono la responsabilità di accompagnare
ragazzi o adulti meno competenti, non è detto che si tratti di persone così esperte da
poter loro attribuire lo stesso ruolo che si attribuisce al professionista
In primo luogo il rischio deriva dagli eventi naturali, più o meno “eccezionali” che,
come tali, non possono essere attribuiti alla responsabilità di qualcuno. I rischi
naturali per loro natura sono determinati da cause che nulla hanno a che vedere con
l’uomo. Non sempre è possibile determinare la catena di causalità che origina un
evento, in modo tale che questa conoscenza possa essere trasformata in una
procedura previsionale dell’evento stesso. Gli organi di informazione, che tendono a
etichettare molti eventi naturali come eccezionali (il caldo estivo, la pioggia
autunnale, la nevicata), costituiscono una formidabile cassa di risonanza alle denunce
e alle contestazioni di alcuni tra coloro che sono colpiti da questi eventi, con la
conseguenza che divengono prioritarie da un lato la ricerca di un responsabile,
dall’altro la richiesta di sicurezza “a tutti i costi”, nonostante questo non sia
possibile.
Le azioni che possono essere realizzate sul territorio per ridurre il livello del rischio,
o quanto meno l’impatto dell’evento naturale, sono essenzialmente volte a
identificare, valutare e monitorare i rischi e a predisporre sistemi di sorveglianza e di
allerta. Si tratta tuttavia di interventi che – specie in alta montagna - incontrano
diverse difficoltà, di carattere tecnico, economico e ambientale. Per altro verso, per
quanto si possa cercare di intervenire preventivamente esiste sempre un rischio
63
residuo che si verifichi un evento più ampio o diverso da quello che è stato valutato
sulla base degli strumenti e dei dati di riferimento. La consapevolezza dell’esistenza
di un rischio diffuso de delle peculiarità dell’ambiente montagna – in particolare
l’alta montagna nell’arco alpino – ha portato all’elaborazione di progetti europei, che
impegnano le Regioni trasfrontaliere di Francia, Italia e Svizzera a cooperare nella
gestione dei rischi naturali41. Ciò considerando anche che l’ambiente montagna sta
cambiando, per ragioni climatiche, e che anche determinati rischi stanno cambiando,
ad esempio perché il progressivo scioglimento dei ghiacciai rende accessibili zone
che in precedenza non lo erano.
In secondo luogo il rischio in montagna può dipendere dal comportamento degli
utenti.
La prima regola è che la salita in montagna deve essere preparata, a cominciare
dall’equipaggiamento, che deve essere adeguato all’itinerario scelto e alle esigenze
metereologi che, e questo i capi scout lo sanno bene, tanto che uno dei motti dello
scoutismo è che “non esiste buono o cattivo tempo, esiste il buono o cattivo
equipaggiamento”. La salita in montagna deve essere preparata nel momento in cui si
sceglie il percorso, che deve essere valutato preventivamente ed essere adeguato alle
capacità dell’utente, del capo e di chi lo segue. Infine, deve esserci con la
disponibilità a tornare indietro, se vi sono condizioni impreviste che possono mettere
a repentaglio la buona riuscita della salita. Un percorso in montagna, infatti, può
presentare pericoli e imprevisti, anche se tracciato. Per altro verso, l’attività in
montagna deve essere svolta in modo da non mettere a repentaglio l’incolumità di
altri.
Anche in questo caso il verificarsi di incidenti che colpiscono l’opinione pubblica
porta a una domanda di sicurezza. Tuttavia l’introduzione di norme, regolamenti o
divieti non è necessariamente utile alla prevenzione del rischio; al contrario, regole
troppo stringenti possono contribuire a creare confusione, superficialità di giudizi e
false credenze rischiando di distogliere l’attenzione dell’utente poco esperto e poco
attento dalle proprie responsabilità42. Questo non esclude la necessità, in determinate
situazioni, di introdurre delle regole; il legislatore, infatti, negli anni è intervenuto
per disciplinare le modalità di svolgimento di alcune attività imprenditoriali e delle
professioni tipiche della montagna43.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
41 Ad esempio il progetto RiskNet, che impegna la Valle d’Aosta quale capofila e che ha
portato alla costituzione di un polo di competenza transfrontaliero destinato ai territori delle
Alpi Occidentali.
42 Esempio tipico è quello dell’emissione di un ordinanza che limita l’accesso a determinati
percorsi, per un certo periodo di tempo, in caso di maltempo. L’utente poco esperto e poco
attento può dare per scontato che quando l’ordinanza sarà revocata il pericolo non esisterà
più, o che non vi sia alcun pericolo in zone limitrofe a quelle interdette.
43 In particolare si ricordano: per quanto riguarda le professioni la L 81/91, per i maestri di
sci, e la L. 6/89 per le guide alpine; per quanto riguarda lo svolgimento di attività
imprenditoriali la L. 363/03 per la pratica di sporti invernali da discesa e da fondo e il d.lgs.
210/03 per l’esercizio di impianti a fune.
64
Per altro verso la prevenzione più efficace è legata alla promozione della conoscenza
e dell’educazione e alla preparazione ad affrontare situazioni di emergenza
nell’ambiente montano. In altri termini la prevenzione più efficace è la costruzione di
una “cultura del rischio”, che consenta all’utente di conseguire consapevolezza del
rischio e responsabilità nell’affrontarlo.
Non si può impedire al singolo di assumersi il rischio di sperimentare le proprie
possibilità in montagna, di superare una vetta, di percorrere una nuova via, purché
ciò avvenga consapevolmente e senza coinvolgere altri, specie se meno esperti e
consapevoli. Nella creazione di una cultura del rischio l’educazione dei giovani ha
un ruolo determinante.
La responsabilità in montagna
La materia della responsabilità per gli incidenti in montagna non è stata oggetto di
particolare approfondimento giurisprudenziale, sia sul piano civile (perché ha dato
adito a un contenzioso limitato rispetto al numero degli incidenti verificatisi), sia sul
piano penale (perché spesso i procedimenti penali, per omicidio o lesioni colpose, si
definiscono con riti alternativi prima del processo). E’ stato correttamente osservato
che questo dato esprime sia l’accettazione, da parte degli alpinisti (ma anche da parte
degli scout), del fatto che andare in montagna comporta dei rischi, mai del tutto
eliminabili, sia lo spirito di solidarietà reciproca e il senso di responsabilità per le
proprie azioni44.
In caso di incidente individuare la responsabilità dell’accompagnatore (colui che si
sia unito ad altre persone per compiere o portare a termine un’escursione,
assumendosi, anche tacitamente, la responsabilità di offrire loro collaborazione e
protezione) dipende in gran parte dalla (ed è proporzionale alla) differenza di
capacità e di esperienza fra l’accompagnatore e gli accompagnati e dal correlativo e
necessario potere direttivo, al quale corrisponde una soggezione degli
accompagnati45.
In questi termini l’accompagnamento genera un affidamento degli accompagnati, a
cui corrisponde un dovere di protezione (una posizione di garanzia)
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
44 così Leonardo Lenti (professore ordinario di Diritto privato presso l’Università di Torino
e istruttore della Scuola di alpinismo e di scialpinismo G. Ribaldone delle sezioni del CAI
delle Valli di Lanzo) in La responsabilità civile degli accompagnatori non professionali
nell’alpinismo e nello scialpinismo. In tema di responsabilità in montagna si richiamano:
Vincenzo Torti, La responsabilità nell’accompagnamento in montagna, CAI, Milano, 1994 e
Maurizio Flick, Il punto sulla legislazione, la giurisprudenza e la dottrina, 1994-2004,
Fondazione Courmayeur, 2004. Con riferimento alla responsabilità penale: Lucia Gizzi Le
fonti dell’obbligo di garantire che non si verifichi l’evento lesivo, nota a Cass. Pen. IV, ud.
22.5.2007, n. 25527, in Cass. Pen. 3/2008, 989.
45 Trib Trento, 6 dicembre 1949, in Riv. Dir. Sport. 1950, 3-4, 119
65
dell’accompagnatore, tale da poter comportare la responsabilità penale di
quest’ultimo, per le lesioni o il decesso di un escursionista. Il livello di affidamento e
del relativo dovere di protezione dipende da una serie di variabili: tra queste la
qualifica dell’accompagnatore, il grado di difficoltà dell’escursione; il divario tra la
capacità dell’accompagnatore e quella dell’accompagnato; la capacità
dell’accompagnato di affrontare da solo l’escursione.
Sul piano normativo il legislatore ha disciplinato l’attività svolta professionalmente,
dalle guide alpine e degli accompagnatori di media montagna, o nell’ambito del Club
Alpino Italiano, quale struttura istituzionale e organizzata ancorché non
professionale.46
L’accompagnamento non professionale - che si svolge nell’ambito di un rapporto fra
singoli ed è oggetto di un accordo, anche tacito, fra le parti - resta disciplinato dalle
regole generali in tema di responsabilità extracontrattuale e da fatto illecito47 48.
Tuttavia l’esame delle (poche) regole che disciplinano l’accompagnamento
professionale può essere d’aiuto per individuare e definire l’ambito delle
responsabilità dell’accompagnatore non professionale.
Attività regolamentata e accompagnamento non professionale
L’esercizio stabile della professione - di guida alpina o di accompagnatore di media
montagna - è riservato a coloro che avendo ottenuto la necessaria abilitazione tecnica
(che prevede la frequenza di corsi teorico-pratici e il superante di esami), siano
iscritti in appositi albi ed elenchi professionali49. La legge inoltre classifica i tipi di
accompagnamento, differenziandoli in base alla tipologia dei percorsi, alle
condizioni climatiche e ai mezzi che di conseguenza devono essere impiegati.
Alla guida alpina sono riservate alcune attività, che sono state parzialmente
regolamentate. Si tratta: dell’accompagnamento di persone in ascensioni, sia su
roccia che su ghiaccio, o in escursioni in montagna; dell’accompagnamento di
persone in ascensioni sci-alpinistiche o in escursioni sciistiche (in particolare al di
fuori delle stazioni sciistiche attrezzate o delle pista da discesa o di fondo);
dell’insegnamento delle tecniche alpinistiche e sci-alpinistiche. L’aspirante-guida
svolge la stesse attività della guida, con esclusione delle ascensioni di “maggiore
impegno” (come definite dalle leggi regionali con riguardo alle caratteristiche delle
zone montuose).
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
46 L. 6/89 recante l’ordinamento della professione di guida alpina.
47 Questo tipo di accompagnamento deve essere gratuito, altrimenti costituisce esercizio
abusivo della professione di guida.
48 L’accompagnatore professionale, invece, comporta anche una responsabilità contrattuale.
49 L. 2 gennaio 1989, n. 6
66
L’accompagnatore di media montagna svolge le stesse attività della guida alpina con
alcune limitazioni, poiché gli è precluso di accompagnare le persone in zone
rocciose, sui ghiacciai, sui terreni innevati e su quelli che richiedono comunque, per
la progressione, l’uso di corda, piccozza e ramponi 50 . Ne consegue che
l’accompagnatore di media montagna – a differenza della guida alpina - non è tenuto
ad avere specifiche conoscenze circa l’impiego e le modalità di utilizzo e di
mantenimento di attrezzatura alpinistica quali ramponi, piccozza, corda e sci. La
regolamentazione dei dettaglio dell’accompagnamento di media montagna è stato
rimesso invece alla legislazione regionale51, che può istituire appositi elenchi 52.
Negli ultimi anni è nata una nuova figura di accompagnatore professionale: la “guida
ambientale escursionistica”, che accompagna in sicurezza in tutto il territorio, senza
l’uso di mezzi per la progressione alpinistica e che è inquadrabile nella L. 4/2013,
che disciplina le professioni non organizzate.
La legge riconosce un ruolo anche al Club Alpino Italiano (CAI), “libera
associazione” che ha come scopo l’alpinismo in ogni sua manifestazione, la
conoscenza e lo studio delle montagne e la difesa del loro ambiente naturale53. Il CAI
a seguito del riordino effettuato tra gli anni sessanta e gli anni ottanta dello scorso
secolo 54 , provvede a svolgere, non professionalmente (ma volontariamente e
gratuitamente), una serie di attività, tra cui la formazione di istruttori in grado di
svolgere corsi di addestramento per le attività alpinistiche ed escursionistiche. I
regolamenti interni del CAI55 prevedono diverse figure, tra cui gli accompagnatori di
alpinismo giovanile, che sono autorizzate a svolgere determinate attività dopo il
superato degli esami di abilitazione e previa iscrizione all’albo tenuto presso la sede
centrale.
Al di fuori del CAI l’accompagnamento non professionale non è disciplinato e per
inquadrarlo si deve fare riferimento ai principi generali.
Alla base dell’accompagnamento in montagna si pone il rapporto tra
l’accompagnatore e l’accompagnato. Il primo è colui che coordina o si unisce ad un
gruppo di persone per compiere una gita, offrendo agli accompagnati collaborazione
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
50 L. 2 gennaio 1989 n. 6, art. 21 :“L'accompagnatore di media montagna svolge in una zona
o regione determinata le attività di accompagnamento di cui al comma 1 dell'articolo 2, con
esclusione delle zone rocciose, dei ghiacciai, dei terreni innevati e di quelli che richiedono
comunque, per la progressione, l'uso di corda, piccozza e ramponi, e illustra alle persone
accompagnate le caratteristiche dell'ambiente montano percorso”.
51 Cfr art.2 co.1 lett.a) L.R. Lazio 1 marzo 2007, n.3; art.16 co.1 lett. a) L.R. Abruzzo 16
settembre 1998 n.86
52 Art.3 L.R Lazio, 1 marzo 2007 n.3; art.39 e 39 bis L.R. Marche, 23 gennaio 1996 n.4; art.
14 L.R Lombardia 8 ottobre 2002, n.26 ;artt.17-27 L.R. Abruzzo 16 settembre 1998 n.86
53 Statuto CAI, art. 1
54 L. 26 gennaio 1963, n. 91 e L. 24 dicembre 1985, n. 776
55 In particolare il Regolamento per gli Organi Tecnici Operativi, approvato nel 2007
modificato da ultimo nel 2013
67
e protezione e assumendosi, anche, un potere direttivo. I secondi sono soggetti che si
affidano alle capacità ed esperienza dell’accompagnatore e che si trovano in una
situazione di soggezione verso quest’ultimo. I poli opposti di questo rapporto sono il
dovere di protezione da parte dell’accompagnatore e un generale affidamento degli
accompagnati.
Criteri di attribuzione della responsabilità
Nell’accompagnamento non professionale il grado di affidamento dell’escursionista
dipende dalla capacità e dalla qualifica dell’accompagnatore. L’accompagnamento
effettuato da un istruttore del CAI crea un affidamento molto ampio, data la nota e
incontestata importanza sociale che esso riveste; ne consegue che si potrà fare una
valutazione rigorosa della responsabilità dell’accompagnatore: nella scelta della gita
e del momento in cui farla, nell’ammissione degli allievi a parteciparvi, in relazione
alle loro capacità. Anche l’accompagnamento effettuato da un accompagnatore del
CAI genera un notevole affidamento, perché si tratta di un’attività tipicamente
associazionistica, legata a un ente che ha lo scopo fondamentale di avvicinare alla
montagna e di favorirne una frequentazione consapevole e sicura56.
Nell’accompagnamento per amicizia e cortesia, invece, non vi può essere alcuna
presunzione: l’affidamento può nascere soltanto se vi è un accordo fra
l’accompagnatore e l’accompagnato, con il quale il primo garantisca al secondo aiuto
e protezione, assumendosi contestualmente un potere direttivo.
In caso di incidente durante un’escursione è necessario chiedersi se esso sia
ascrivibile a un errore compiuto dall’accompagnatore, dall’accompagnato o da un
terzo (per negligenza, imprudenza o imperizia) oppure se sia dovuto a cause
imprevedibili. L’errore può riguardare l’organizzazione dell’escursione (ad esempio:
scelta dell’itinerario o della giornata; poca attenzione alle condizioni
metereologiche57; mancanza di equipaggiamento adeguato); la valutazione delle
capacità dell’accompagnato (ad esempio: capacità tecnica, resistenza fisica, velocità,
padronanza dei nervi in caso di difficoltà); lo svolgimento dell’escursione (ad
esempio: non essersi fermati o non aver cambiato tragitto in caso cambiamento delle
condizioni meteo o di forte rallentamento della marcia). Tanto più l’escursione
presenta difficoltà prossime al limite di capacità dell’accompagnato, tanto maggiore
deve essere la capacità dell’accompagnatore. Ancora, chi assume la responsabilità
dell’accompagnamento deve conoscere l’itinerario e le difficoltà che presenta: non
solo in generale, ma anche nel periodo specifico in cui si effettua l’escursione, in
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
56 Cfr. Cass. Civ. III, 12900/12, che ha riconosciuto la responsabilità per esercizio di attività
pericolosa in riferimento a un escursione alpinistica organizzata dal CAI nell’ambito di un
corso di alpinismo.
57 Cfr. Cass. Pen. IV, 26116/2008, CED RV 240845, secondo cui in tema di omicidio
colposo sussiste la responsabilità del maestro di sci che abbia accompagnato gli allievi in un
percorso fuori pista, indicato come pericoloso, in un giorno nel quale era stato segnalato il
rischio di distacco valanghe.
68
particolare in riferimento alle condizioni metereologiche e all’orario (ad esempio:
pericolo di valanghe o frane, condizioni insicure dell’innevamento e dei pendii,
presenza di placche di ghiaccio).
In sostanza, l’accompagnatore risponde per i danni derivanti da incidenti dovuti a
eventi naturali se e nella misura in cui erano ragionevolmente prevedibili, a causa
delle condizioni esterne o a causa dell’inadeguatezza delle capacità
dell’accompagnato rispetto al percorso scelto. La responsabilità del primo, come già
anticipato, potrà essere valutata con rigore tanto maggiore quanto maggiore è
l’affidamento creato nell’accompagnato.
Concretamente, nel caso in cui durante una gita si verifichi un incidente la
responsabilità dell’accompagnatore può derivare da un errore nella fase di
organizzazione della gita (la scelta dell’itinerario da seguire, le capacità
dell’accompagnato rispetto alla difficoltà della gita oppure l’analisi delle condizioni
meteorologiche), oppure nella fase di svolgimento della stessa (errori di tipo tecnico
compiuti durante la gita).
Responsabilità penale
L’accompagnatore può essere chiamato a rispondere penalmente per l’incidente
subito dall’accompagnato se l’evento lesivo - morte o lesioni - era prevedibile con un
sufficiente grado di approssimazione ed è stato determinato, almeno in parte, dalla
condotta colposa dell’accompagnatore - intendendo la colpa come imprudenza,
negligenza e imperizia - o in caso di violazione di leggi, regolamenti ordini e
discipline.
La condotta imputabile all’accompagnatore può consistere in un’azione o in
un’omissione; il codice penale, infatti, individua l’omissione tra le condotte che
determinano la responsabilità penale, ove vi sia uno specifico obbligo di garanzia,
ovvero l’obbligo giuridico di attivarsi per impedire l’evento dannoso.
Nell’accompagnamento non professionale in montagna l’obbligo di garanzia può
derivare dall’affidamento che nasce da un rapporto di associazione in essere, da un
rapporto di cortesia, o dal compimento di una precedente attività lecita, dalla quale
derivi una accertata condizione di pericolosità per il terzo.
L’assunzione dell’obbligo di garanzia da parte dell’accompagnatore può nascere
anche da un accordo con l’accompagnato, non essendo necessario che
l’accompagnatore assuma volontariamente e unilateralmente compiti di tutela58.
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58 Così Cass. Pen. IV n. 25527/2007, che ha confermato la condanna per omicidio colposo
pronunciata nei confronti di un poliziotto addetto al servizio piste, che si era assunto
l’incarico di accompagnare a valle, a bordo di alcuni slittini, i partecipanti ad una cena in un
rifugio alpino. L’assunzione, di fatto, dell’incarico di controllare la discesa di un gruppo di
persone, da parte di persona esperta e conoscitrice dei luoghi, ha indotto i discesisti, che
hanno fatto affidamento nella competenza, capacità ed esperienza dell’accompagnatore, ad
affrontare la situazione di pericolo costituita dalla discesa notturna, in Cass. Pen. 3/2008, cit.
69
Ciò che conta, ai fini dell’attribuzione di responsabilità, è il fatto che l’affidamento
sulla disponibilità del garante induce la persona protetta ad affrontare rischi
particolari o a rinunciare ad altre forme di tutela.
Responsabilità civile
Come detto l’accompagnamento volontario è posto in essere per amicizia o per
cortesia, gratuitamente. Dal carattere certamente non contrattuale di questa forma di
accompagnamento può derivare una responsabilità extracontrattuale, quanto meno
per “colpa”, commisurata al grado di affidamento richiesto e garantito. Tuttavia sarà
l’accompagnato a dover dimostrare la negligenza, l’imprudenza o l’imperizia
dell’accompagnatore, nonché l’esistenza del nesso di causalità fra il comportamento
di quest’ultimo e l’incidente produttivo del danno.
L’accompagnatore, che si assume la responsabilità della gita, risponde per i danni
derivanti da incidenti dovuti ad eventi naturali, se e nella misura in cui erano
prevedibili; in sostanza, l’accompagnatore si libera da responsabilità solo nella
circostanza in cui l’incidente sia dovuto a caso fortuito o forza maggiore o qualora
il nesso di causalità si interrompa.
Accompagnamento in montagna e attività pericolosa
Ben diverse sono le conseguenze se l’attività di montagna è considerata una “attività
pericolosa”59: in questo caso, infatti, si richiede un un più elevato grado di diligenza
nell’esercizio dell’attività, e si presume la colpa dell’agente per il danno prodotto. Ne
deriva che il danneggiante dovrà provare di aver adottato tutte le misure idonee ad
evitare il danno, mentre il danneggiato potrà limitarsi a dimostrare l’esistenza del
danno ed il nesso causale tra esso e lo svolgimento dell’attività pericolosa.
Le attività che non sono espressamente qualificate come pericolose, possono essere
ritenute tali per la natura delle cose e dei mezzi che vengono adoperati per il loro
svolgimento60. In quest’ultima ipotesi la valutazione sulla pericolosità dell’attività
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In termini simili Cass. Pen. IV, n. 23090/2002, che ha confermato la condanna per omicidio
colposo, pronunciata nei confronti di una guida-accompagnatore di un gruppo per la morte di
un escursionista, il quale, sia pure contravvenendo al generico, previo avvertimento di non
allontanarsi dal gruppo, si sia avventurato, non imprevedibilmente, in un passaggio la cui
particolare pericolosità non era stata in precedenza segnalata, CED RV 226428.
Ancora si richiamano: Cass. Pen. IV, n. 26116/2008, CED RV 240845, in tema di
responsabilità per omicidio colposo del maestro di sci che abbia accompagnato gli allievi in
un percorso fuori pista, indicato come pericoloso, in un giorno nel quale era stato segnalato il
rischio di distacco di valanghe; Trib Bolzano 14 giugno 1975, in Riv. Dir. Sport. 1975, 365,
in tema di responsabilità per omicidio colposo del comandante di una compagnia di alpini
per non avere sospeso tempestivamente la continuazione della marcia, pur essendo
prevedibile il rischio di valanghe.
59 Cfr Cass. Civ. n. 8095 del 2006; Cass. Civ. n. 24799 del 2005.
60 Cfr Cass.civ. n. 8095 del 2006
70
svolta sarà effettuata in concreto, in relazione al grado di probabilità degli eventi
dannosi che possono determinarsi nel corso di questa e non con riferimento al grado
di diligenza normalmente usata da coloro che ne prendono parte, che di per sé
potrebbe essere sempre inadeguato61. Si dovrà, cioè, porre l’accento sulla natura
dell’attività e sulle caratteristiche dei mezzi utilizzati, sia nel caso in cui il danno si
presenti come conseguenza dell’azione, sia nel caso in cui il danno derivi da
un’omissione delle cautele che si dovevano.
Nell’applicazione concreta alcuni Giudici di merito propendono per considerare
l’accompagnamento in montagna come attività pericolosa62. In senso contrario
depone un argomento di tipo letterale, dal momento che non si ravvisa in essa né una
pericolosità nei mezzi utilizzati né nella natura della stessa, elementi espressamente
richiamati dal dettato legislativo 63: le attività di montagna, dunque, sono attività
normalmente innocue che possono diventare pericolose per la condotta di chi le
esercita. In proposito è fondamentale la distinzione effettuata dalla giurisprudenza di
legittimità, secondo cui tutte le attività umane hanno in sé un grado di pericolosità
più o meno elevato e che bisogna distinguere tra pericolosità della condotta e
pericolosità dell’attività in quanto tale: “la prima riguarda un’attività normalmente
innocua, che assume i caratteri di pericolosità a causa della condotta imprudente o
negligente dell’operatore, ed è elemento costitutivo della responsabilità ai sensi
dell’art. 2043 c.c.; la seconda concerne un’attività che, invece, è potenzialmente
dannosa di per se per l’alta percentuale di danni che può provocare in ragione della
sua natura o della tipologia dei mezzi adoperati e rappresenta una componente della
responsabilità disciplinata dall’art. 2050 c.c.”64
Si può aggiungere che, ove si voglia attribuire una connotazione di pericolosità
all’attività alpinistica, si dovrebbe tenere conto della distinzione che la legge 6/89 fa
tra attività di alta montagna e attività di media montagna, per cui il giudizio di
pericolosità sulla prima non implicherebbe automaticamente il medesimo anche sul
secondo tipo di attività, che non richiede per il suo svolgimento l’utilizzo di
attrezzatura particolare.
Tale distinzione tra le attività potrà avere particolare rilievo nella considerazione e
valutazione tanto delle proposte di copertura assicurativa che nel caso di richiesta di
risarcimento danni alla Compagnia assicuratrice; in particolare, nella valutazione di
polizze assicurative per il rischio degli Associati, non dovranno essere inserite
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61 non è pericolosa l’attività che non deriva da fatti estranei all’attività, ma è una
conseguenza della condotta di chi la esercita così Cass. Civ. n. 13530 del 1992; si veda
inoltre Cass. Civ. n. 7916 del 2004 e Cass. Civ. 2220 del 2000 nonché Cass. Civ. n.7916 del
2004, in riferimento all’attività di gestione di un’impianto di risalita.
62Trib. Milano 21 novembre 2002, in Giur. milanese, 2003, 80; Trib. Verbania, 17 febbraio
1994, Riv.dir.sport.1999, 545
63 Così Leonardo Lenti, La responsabilità civile degli accompagnatori non professionali
nell’alpinismo e nello scialpinismo.
64 Cass. Civ., Sez. III, Sent. n. 20357 del 21/10/2005, (rv. 584516) .
71
clausole di esclusione dal rischio dell’attività in montagna, poiché tali attività non
rientrano di per sé solo tra quelle pericolose; così, ancora, la Compagnia assicuratrice
non potrà rifiutare il risarcimento di danni subiti in attività di montagna se non, in
estrema ipotesi, nel caso di specifiche attività, effettivamente classificabili come
pericolose (attività alpinistica, alta montagna ghiaccio ecc…)65.
Responsabilità in montagna e scoutismo
Allo scoutismo si applicano le regole generali. In particolare, nel caso
dell’accompagnamento in montagna il capo scout deve individuare il metodo di
comportamento migliore nella preparazione e durante lo svolgimento dell’attività.
Ciò significa che il capo deve proporre soltanto quelle attività di cui possiede
un’adeguata conoscenza metodologica, una capacità organizzativa, nonché
un’attitudine tecnica: è importante, in sintesi, che egli valuti con attenzione i propri
limiti. Inoltre, prima della partenza, il capo dovrà fornire al suo gruppo le
informazioni necessarie sull’attività da svolgere, accertandosi alla partenza che tutti i
partecipanti siano forniti del materiale necessario e siano concretamente in grado di
utilizzarlo. Infine è importante accertare le capacità fisiche e psicologiche di ogni
componente del gruppo.
Nessuna legge disciplina espressamente una responsabilità legale per il capo scout,
ma detta obblighi e regola le conseguenti responsabilità per categorie di persone che
svolgono attività che presentano finalità simili a quelle cui sono dirette le attività
scout, come, ad esempio i precettori 66.
Per valutare la responsabilità del capo scout nell’accompagnamento in montagna, in
particolare la responsabilità penale, devono applicarsi le regole già indicate: si può
individuare una responsabilità del capo in relazione ad un incidente occorso ad un
componente del gruppo accompagnato, nella misura in cui il verificarsi dell’evento
lesivo sia stato determinato dalla condotta del capo stesso, caratterizzata da
imprudenza, negligenza o imperizia67.
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65 Per le problematiche inerenti i contratti di assicurazione si veda la pubblicazione della
Fondazione Courmayeur Mont Blanc, Montagna, Rischio e Assicurazione, Atti del
Convegno, Courmayeur, 5 aprile 2013, in www.fondazionecourmayeur.it
66 Trib. Roma, Sent. del 24/03/2000 Tramentozzi c. Circolo Ansel, Fonte: Giur. romana,
2000, 455 afferma che “l’istruttore sportivo è responsabile del danno causato a se medesimo
dall’allievo durante la lezione, a meno che non dimostri che il gesto auto lesivo dell’allievo
sia stato svolto con imprevedibilità e repentinità tali da rendere impossibile ogni intervento
dell’istruttore”.
67 Si richiama in materia di responsabilità del capo scout Cass. Civ. III, n. 10213/01 per i
danni subiti, durante un campo, da un minore colpito da una palla da baseball lanciata da uno
dei capi durante un gioco. Si ricorda anche la nota vicenda, accaduta alcuni anni fa in un
campo estivo in Valtellina, nella quale le tende costruite sul greto del torrente sono state
travolte da una piena, con il conseguente decesso di tre guide; la vicenda in questione è stata
definita con il rito abbreviato del patteggiamento.
72
Non si possono invece individuare profili di colpa specifica nell’accompagnamento
in montagna effettuato dal capo scout, dato che egli non svolge attività di
accompagnamento professionale, alla quale unicamente è riferibile la legge
sull’attività della guida alpina, che ne individua i limiti di liceità; ciò a meno che il
capo scout nello svolgere la propria attività violi specifiche disposizioni normative
che, segnalando la presenza di pericoli per l’incolumità personale dovuti alla cattiva
manutenzione del territorio montano o alle condizioni climatiche in esso presenti68,
impongono al visitatore di attenersi a determinate condotte.
La posizione che riveste un capo scout nell’accompagnamento in montagna è
peculiare: egli, infatti, non è un accompagnatore titolato, né tanto meno un
professionista, tuttavia nei confronti degli accompagnati svolge un ruolo di direzione
determinato dall’appartenenza all’associazione scout e dai principi che ne regolano
l’attività69. L’affidamento è dunque minore di quello che si crea in ambito CAI, ma
resta tuttavia il fatto che vi è un legame con aspettative di carattere associazionistico;
infatti, il fare “strada” in montagna nello scoutismo è una delle attività svolte con
maggiore frequenza, anche se non può essere qualificata come attività fondamentale
dell’associazione. Il grado di affidamento è, evidentemente, maggiore se gli
accompagnati sono giovani con meno di diciotto anni, che risultano affidati in
custodia al capo, o all’aiuto.
La formazione stessa del capo non è finalizzata al superamento di un esame per
l’iscrizione ad uno specifico albo professionale, ma è una formazione basata sul
passaggio di nozioni tra i capi dell’associazione, che, pur fornendo alcune cognizioni
tecniche, non solo di tipo alpinistico, si fonda soprattutto su aspetti educativi.
Tuttavia la definizione di accompagnamento volontario non è idonea a delineare in
modo esaustivo il ruolo e i profili delle competenze che il capo clan o fuoco
assumono quando svolgono accompagnamento in montagna, in quanto con tale
termine si definisce tanto l’accompagnamento cosiddetto “di cortesia” tanto quello
svolto delle guide e accompagnatori CAI.
Rispetto all’accompagnamento della guida CAI l’accompagnamento del capo scout
si pone su un livello inferiore per quanto attiene alla conoscenza delle tecniche
alpinistiche. Rispetto all’accompagnamento “di cortesia”, d’altra parte, come quello
intercorrente tra un gruppo di amici che si affidano ad un soggetto più esperto per
svolgere escursioni in montagna, vi sono alcuni importati elementi di distinzione;
primo tra tutti il rapporto che sottende all’accompagnamento tra il capo scout e gli
accompagnati che, se minori, gli vengono affidati.
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68 Ad esempio si pensi a ordinanze del sindaco che dispongano la chiusura di strade o
sentieri.
69 Ad esempio, nella preparazione del campo mobile il capo deve studiare le caratteristiche
morfologiche, fisiche e naturalistiche dell’ambiente e predisporre e verificare mezzi ed
equipaggiamenti, non sottovalutando le insidie del percorso scelto. Cfr. Norme direttive
F.S.E. e cerimoniale della Branca Rover, 57; si richiama anche il sussidio della Branca
Rover n. 2 sul campo mobile, 24 e 25.
73
I genitori che autorizzano la partecipazione dei figli ai campi e alle uscite in
montagna e i ragazzi stessi, quindi, si affidano al capo scout in quanto riconoscono in
lui una maggiore competenza, se non altro per la differenza di età che egli possiede
rispetto ai ragazzi e per l’esperienza che a sua volta ha maturato nel corso degli anni
all’interno dello scoutismo. Tuttavia i genitori e i ragazzi maggiorenni, pur
consapevoli, di non affidarsi ad una guida alpina, possono non possedere la stessa
consapevolezza circa i rischi legati a tale tipo di accompagnamento non
professionale.
Ciò implica la necessità di creare nei capi scout quella “cultura del rischio”
necessaria per la prevenzione e la gestione del rischio stesso. Tale necessità va
tuttavia bilanciata con il fatto che l’indicazione tassativa sulle modalità di
svolgimento dell’attività in montagna o la previsione di una formazione qualificata in
materia alpinistica, potrebbe non solo accrescere il grado della responsabilità per i
danni che si verificano nel corso delle attività, ma anche progressivamente
stravolgere le finalità dello scautismo.
Nella valutazione degli interventi può essere utile tenere conto della già richiamata
distinzione prevista dalla legge tra accompagnatori di media montagna e di alta
montagna, sulla base della difficoltà dei percorsi, delle condizioni climatiche presenti
in essi e delle attrezzature che devono essere impiegate. La classificazione, inoltre,
può costituire un riferimento per distinguere - anche predisponendo documenti
specifici o richiedendo un particolare percorso formativo e abilitativo - tra le
escursioni in montagna, al fine, da un lato, di graduare preventivamente e in astratto
il livello di difficoltà tecnica delle escursioni, dall’altro di individuare per ciascun
livello le competenze tecniche che l’accompagnatore dovrebbe possedere e
l’attrezzatura necessaria70.
Conclusioni
La montagna è espressione di libertà e di sfida, ma è anche un luogo che richiede
preparazione, esperienza e prudenza. Un luogo, come detto, dove non è possibile
prevedere tutto e dove esiste sempre e comunque un rischio. Le valutazioni per
prevenire il rischio devono riguarda l’equipaggiamento e le capacità
dell’accompagnatore e dell’accompagnato (anche rispetto alla durata del percorso o
delle condizioni climatiche) oltre che il tempo e il luogo; nello svolgimento
dell’attività l’attenzione deve essere rivolta ad evitare errori tecnici. Ciò perché nel
momento in cui l’incidente accade, la valutazione di quale era il terreno su cui ci si è
mossi, quali erano le condizioni metereologiche, quali erano le direttive emanate (se
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70 Tra le nozioni tecniche che l’accompagnatore di media montagna deve possedere vi sono:
la preparazione attrezzi ed equipaggiamento, elementi di pronto soccorso, lettura e
interpretazione di carte topografiche, orientamento, meteorologia (cfr art. 20 L.R. Abruzzo
16 settembre 1998 n. 86).
74
ce n’erano) da parte dell’amministrazione locale, sono elementi che necessariamente
sono presi in considerazione.
Vivere la montagna con responsabilità richiede di sviluppare una cultura del rischio
consapevole e di trasmettere questa cultura ai giovani. Questo onere di trasmissione
spetta anche agli accompagnatori non professionisti, i quali devono essi stessi
acquisire le conoscenze necessarie per accompagnare in sicurezza.
La distinzione fra l’alpinismo e l’attività di media montagna, introdotta dalla legge,
può essere utile per trovare un discrimine fra attività da considerare “rischiosa”, e
l’attività da considerare “normale”, che può diventare pericolosa soltanto a causa di
particolari condizioni climatiche, o di comportamenti imprudenti da parte degli
accompagnatori. Dunque nella scelta del percorso da un lato dobbiamo mettere
l’alpinismo, o l’utilizzo di particolari attrezzature, dall’altro la montagna su sentiero,
facile o difficile che sia, che è gestibile anche senza una preparazione specifica.
L’adulto che accompagna i ragazzi se svolge l’attività individuata come rischiosa
deve necessariamente essere tecnicamente pronto a farlo, avendo acquisito la
preparazione adeguata.
Tuttavia l’accompagnatore scout non è un accompagnatore CAI, né può diventarlo,
perché questo porterebbe ad una stravolgimento di quello che è lo spirito e
l’impostazione dello scautismo, che approccia la montagna per insegnare i ragazzi a
“fare strada”, ma in un contesto educativo più ampio. E certamente il grado di
affidamento (e la conseguente accettazione del rischio) che si ha, che i genitori
hanno, nel lasciare che i ragazzi siano accompagnati dai capi scout è diverso da
quello che si ha affidandosi a un accompagnatore CAI.
Questa distinzione deve essere tenuta presente anche nel momento in cui si ragiona
di come sviluppare ed elaborare delle regole tecniche interne all’associazionismo
scout, che sono indispensabili per acquisire nel modo più corretto la cultura del
rischio e della responsabilità in montagna. La sfida sta nel riuscire ad evitare che la
regolamentazione l’obbligatorietà della formazione tecnica portino dei limiti alla
fantasia e al desiderio di scoperta degli scout.
***
È innegabile che la montagna per le caratteristiche morfologiche dell’ambiente e
per gli eventi atmosferici ai quali è sottoposto l’ambiente montano stesso, comporta
dei rischi per chi la frequenta.
Anche il più esperto alpinista o sciatore estremo purché conoscitore dell’ambiente
montano e delle sue caratteristiche anche più insidiose, deve comunque adottare una
maggior cautela, diligenza e prudenza (di cui già abbiamo trattato prima) nel
praticare attività in questo ambiente così bello così affascinante ma che nasconde
sempre dei rischi.
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Con l’Avv. Flick abbiamo esaminato tutti i rischi e tutte le responsabilità che si
possono profilare in montagna segnatamente alle attività che ivi vengono svolte con
particolare attenzione all’accompagnamento che è una delle attività che
frequentemente viene svolta dalle associazioni scoutistiche.
http://www.agesciabruzzo.it/wp-content/uploads/2015/11/Atti_Convegno_Scout_Romanini.pdf