lunedì 16 novembre 2015
La differenza d'età in Co.Ca. Ricchezza o difficoltà?
Spesso in Comunità Capi le differenze d’età
sono consistenti e la convivenza non è sempre
facile. Quale cura prestia mo ai legami fra
passato e futuro?
Quando aveva 20 anni Luisa di una cosa era certa:
non sarebbe diventata mai come il suo capo gruppo.
Non lo sarebbe diventata perché lui era un uomo
e – cosa più importante – perché lei avrebbe capito
in tempo quando fosse arrivato il momento di andarsene;
avrebbe saputo come comportarsi con il
resto del gruppo: non avrebbe preteso di essere onnipresente
a tutte le attività commentando, correggendo,
sottolineando ogni qualvolta lo spirito
della tradizione veniva minacciato.
Avrebbe evitato gli immancabili “ai miei tempi!” e
avrebbe omesso di precisare sempre quanto fosse
notevole l’esperienza posseduta e che, metaforicamente
parlando, dopo la sua fuoriuscita dal
gruppo il diluvio avrebbe sommerso e distrutto
qualsiasi traccia di scautismo. In sintesi lui era
vecchio e, si sa, giovani e vecchi non riescono a
lavorare insieme!
Il povero Luigi, in realtà, non arrivava ai 45 anni e
non solo non si sentiva vecchio, ma era convinto
che il gruppo andasse bene e funzionasse perché,
fortunatamente, lui e altri capi vecchi come lui
(che lui amava definire “vecchi capi”) di lunga e
sicura esperienza, tradizione, stabilità e affidabilità
garantivano il giusto stile scout.
Luisa e Luigi, anche se in tempi diversi e con modalità
molto differenti, lasciarono la comunità capi.
L’una, esigente ed ipercritica prima di tutto verso
se stessa, a 35 anni si riteneva troppo vecchia per
stare insieme a capi di 20 anni o giù di lì che a volte
non capiva, che sembravano poco motivati, poco
impegnati, desiderosi di conservare un certo distacco
nella scelta di servizio perché “non si può
vivere di solo scautismo”, e con molta discrezione,
per non imporre la sua presenza e non diventare
simile al Luigi di venerata memoria, si defilò.
Il buon Luigi se ne andò anche lui: deluso, insoddisfatto,
un po’ incattivito (se si potesse dire),
sicuramente frustrato perché nessuno lo volle
ferire dicendoglielo apertamente, l’aveva capito
da solo notando che nessuno lo contraddiceva
apertamente, gli lasciavano terminare i suoi interventi…
ed era come se se ne fosse già andato...
Chissà se esistono altri Luisa e Luigi in
Associazione, chissà se dentro ciascuno di noi ci
sentiamo un po’ l’una o un po’ l’altro.
La ricchezza delle nostre comunità capi e
dell’Associazione nel suo complesso, è il vivere
esperienze con persone diverse fra loro, dove
molteplici sono le variabili che entrano in gioco:
la famiglia di origine, il sesso, il tipo di lavoro, il
tipo di studi fatti, le scelte vocazionali, l’età, la
personalità, le abilità, le disabilità…
É una sana costrizione ad uscire da noi stessi, a
non dare nulla per scontato, a misurarci con l’altro non teoricamente idealizzato e addomesticato,
ma l’altro in carne ed ossa portatore di un’identità
certamente simile, ma mai identica alla nostra.
Sappiamo effettivamente trarre il massimo vantaggio
da questa scelta o, al di là del “dover essere”,
soffriamo un po’ questa situazione che oggettivamente
è più complessa e più faticosa, e di cui c’è il
rischio di cogliere più i limiti che i pregi?
Creare una comunità vera è sempre difficile,
è un impegno quotidiano e personale che
va fortemente voluto, perseguito, tentato e
non c’è mai un momento in cui possiamo dirci
arrivati, perché la comunità può sempre essere
minacciata dalla fretta, dalla superficialità,
dalla pigrizia, dall’accidia, dalle omissioni (ben
più numerose delle nostre azioni negative) delle
nostre relazioni interpersonali. Se questo vale
sempre, diventa ancora più difficile quando
l’impresa viene vissuta da un gruppo di persone
che, pur condividendo una Legge e l’impegno di
una Promessa, sono molto diverse fra loro.
Quando il gioco funziona, la presenza di tante
ricchezze diverse innesca un circolo virtuoso.
È straordinario, se si pensa a questo fatto: un
gruppo di adulti che insieme fanno un percorso
che è di crescita personale e metodologica in
un mutuo scambio, dove la reciprocità gioca un
ruolo, se non esclusivo, certamente fondamentale
tra le persone e nel servizio ai ragazzi. È una
comunità dove si vive la fraternità, se ne fa
esperienza, dove non c’è qualcuno che dona e
qualcun altro che riceve, ma dove si sviluppa
una circolarità di dono ricevuto e a sua volta
donato.
La prima domanda allora potrebbe essere: al
di là dei compiti affidati a ciascuno, ai “posti
d’azione” ricoperti da ogni persona, usando un
termine da Impresa, siamo convinti che all’interno
della variabile capi giovani e meno giovani
la reciprocità sia il fine ultimo del nostro agire?
I capi giovani sono il futuro della nostra possibilità
di educazione, quelli meno giovani sono le nostre
radici, sono la tradizione della comunità nel senso
migliore del termine e cioè quello di trasmissione,
di consegna del patrimonio culturale costituito
da consuetudini, memorie, notizie attraverso
non tanto la documentazione scritta, ma la comunicazione
viva e l’esempio di chi nel tempo ha
vissuto i valori dello scautismo.
I capi meno giovani sono la nostra memoria e chi
siamo noi senza memoria? Quale fatica faremmo
se dovessimo reimparare di nuovo tutto ogni
giorno, che spreco di tempo!
Ugualmente vivere negandoci un futuro sarebbe
un sopravvivere quanto mai sterile.
E allora come seconda domanda potremo chiederci:
quale considerazione, quale cura prestiamo,
quali necessari legami fra il nostro
passato e il nostro futuro?
Sbilanciati non si riesce a stare in piedi a lungo e,
che si cada all’indietro o in avanti, il risultato non
è mai positivo.
Fuor di metafora viene in mente san Benedetto che
nella sua Regola quando tratta di come l’abate
debba decidere su questioni importanti dice esplicitamente
”… abbiamo detto di convocare tutti a
consiglio perché spesso il Signore rivela anche a chi
è più giovane la soluzione migliore.” (op. cit. cap.
3).
In una società che sembra aver annullato i conflitti
generazionali verrebbe da pensare che ritrovarsi,
giovani e meno giovani insieme, a lavorare, non
costituisca un problema.
Sarebbe interessante conoscere le opinioni che
circolano in Associazione. Opinioni che si fondano
non su un teorema assoluto, ma sull’esperienza
personale e che quindi possono essere
anche molto lontane fra loro e magari contrastanti.
Io azzardo la mia, che è altrettanto parziale e relativa
e forse anche un po’ confusa e che a ben vedere,
più che un’opinione, è un insieme di domande
che continuano a riaffacciarsi alla mente.
Il problema si presenta quando il gioco non funziona
e può non funzionare per tanti motivi, anche
per il fatto delle età diverse se, per esempio, la
differenza di età è troppa.
Capi giovani, ma quanto giovani? Meno giovani,
ma di quanto?
Domanda che può essere banale o riduttiva tutte e due le cose insieme, ma sulla quale vorrei
soffermarmi.
Non sono tra coloro che asseriscono che la giovinezza
sia solo una questione di “spirito”: la giovinezza
è anche una questione anagrafica e lo è
tanto più per un’associazione educativa che vede
la presenza dell’adulto proposto nella figura del
“fratello maggiore”, che sa di una certa qual complicità,
pur senza rinunciare alla “adultità” che
deriva da una maggior esperienza di vita, ma il
fratello per quanto maggiore non è un nonno, né
una zia.
Questo vale per il rapporto capo-ragazzo e mi interroga
che anche qui a volte si sostenga che l’età
non conta, ma conta lo “spirito”: quando affermiamo
questo, lo facciamo avendo come punto di
riferimento noi o i/le ragazzi/e?
Sono convinta che anche in comunità capi, se il
divario di età è molto ampio, il gioco non funzioni.
Se è vero che c’è un limite d’età non sancito
statutaria m ente, ma dettato dalla sensibilità
pedagogica che porta i meno giova n i a non
giocare più il gioco direttamente con i ragazzi,
allo stesso modo i meno giovani rivestono
sempre un ruolo positivo all’interno della comunità?
Qualche anno fa c’era una consuetudine condivisa,
almeno a livello teorico, (poi si sa la realtà
può portarti a derogare da ciò che è l’ottimo in
favore di ciò che è possibile) quella che quando arrivava
in comunità capi il/la tuo/a capo squadriglia,
era forse venuto il momento di incominciare a
pensare seriamente di passare il testimone a qualcun
altro.
Questo non perché non si sia capaci di farsi da
parte, di creare spazi, di stimolare la partecipazione,
ma perché la persona che ci si trova di fronte
non è più il/la capo squadriglia, è una persona che ha percorso un tratto di strada che ne ha fatto
una persona diversa da quella che si conosceva. Ci
si deve porre con grande serietà la domanda se
sia possibile creare quel clima di libertà interiore
perché ogni capo possa esprimersi per quello che
è, e non per come gli altri si aspettano da lui.
É questa poi la fatica che ogni genitore fa ad accettare
il proprio figlio diventato adulto. Per l’immenso
amore e rispetto che ha per lui, non lo
può più trattare da bambino, non lo può più difendere
dai guai del mondo, ma deve porsi accanto
a lui semplicemente come risorsa, come accompagnamento,
senza la pretesa che per il semplice
fatto di essere il suo genitore, lui debba ascoltare
e obbedire.
Tanto è vero tutto questo, che in un rapporto
sano, liberante e costruttivo i figli se ne vanno, e se
rimangono non è qualcosa di fisiologico, ma è dovuto
ad una patologia della nostra società, perché
non c’è una situazione possibile migliore.
Cosa spinge allora a rimanere in una comunità capi
a lungo nonostante l’età che avanza?
Credo sia, onestamente, il sentirsi un po’ indispensabili,
il pensare di aver capito il segreto delle
cose e volerlo insegnare agli altri, in ciò contravvenendo
in realtà ad uno dei capisaldi della scelta
scout che è l’interdipendenza tra pensiero ed
azione che vale anche per i capi: ognuno cresce
perché fa le sue esperienze e, nemmeno con le
migliori intenzioni, ha senso vivere per interposta
persona.
Confesso, a partire da me stessa, quasi mai ho
sentito qualcuno che permanesse in comunità
capi adducendo come motivazione quella dell’arricchimento
personale e del prosieguo della propria
formazione permanente.
La maggior parte lo fa per spirito di servizio, perché
c’è bisogno, per aiutare chi è in difficoltà. Ma
siamo sicuri che sia proprio sempre così?
È una legge che vale per i gruppi, ma può anche
valere per i singoli, quella secondo la quale si
cambia solo se si è costretti e credo sia una grazia
da chiedere al buon Dio quella di farci capire
quando è il momento di andare, un andare
che sia un atto di amore per la comunità che si
lascia perché si ha fiducia che questa può farcela
anche senza di noi, perché si è lavorato per
questo e per rendere la comunità più adulta,
più responsabile anche se con meno esperienza.
Chi scrive appartiene al novero dei meno giovani
della sua comunità capi e scrive proprio dando
voce a dubbi che settimanalmente pone innanzi
tutto a se stessa, non è un attacco indiscriminato
a chi giovane non è, la domanda sta – come
ricordato all’inizio – nell’entità del divario.
Riprendendo le esperienze di Luisa e Luigi, probabilmente
l’età anagrafica ha portato a non far
scattare quel circuito virtuoso di reciprocità di cui
si è parlato, soprattutto perché oggi la differenza
anche solo tra un quarantenne ed un ventenne è
culturalmente molto più accentuata di 30 anni fa e
questo ci deve spingere ad essere ancora più vigili.
Forse la scelta di Luisa di andarsene prima di quanto
avesse fatto Luigi dipende non tanto dalla variabile
dell’età, quanto da quella del sesso: ma questa
è tutta un’altra storia…!
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